Gli eroi del clima contro il riscaldamento globale

Molteplici sono i volti, ed ognuno si porta dietro una meravigliosa storia: sono gli Eroi del Clima, persone che quotidianamente rispondono al surriscaldamento ed ai cambiamenti climatici globali, cercando di fare del proprio meglio per limitare i danni e ridurre l’impronta ecologica dell’impatto del vissuto umano sul pianeta Terra: sono state raccolte nel progetto Climate Heroes, su un sito dove è possibile non solo conoscere i fotografi del progetto, ma anche nominare e sostenere uno degli eroi ivi presenti.

In copertina: Isatou Ceesay, cofondatrice della Women Initiative the Gambia.

CAMBIAMENTI CLIMATICI: 17 PROGETTI PER CAMBIARE IL MONDO

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Tra gli Eroi del Clima che combattono contro il riscaldamento globale c’è Isatou Ceesay, a Banjul, in Gambia, che è cofondatrice della Women Initiative the Gambia e che per 17 anni si è impegnata per insegnare alle donne del suo territorio come poter trasformare i rifiuti plastici in fonte di reddito, proprio per eliminare uno dei maggiori responsabili delle emissioni di anidride carbonica in Africa; c’è il Venerabile Bun Saluth, che in Cambogia è riuscito, nel 2002 a far in modo che i monaci della pagoda di Samraog avessero riconosciuto legalmente il diritto alla salvaguardia di ben oltre 18 mila ettari di foresta sempreverde, nello stesso territorio.

caption: I monaci della pagoda di Samraog in Cambogia

Altro eroe rappresentato nel progetto è Brian Kjaer e gli abitanti dell’isola di Samsø, che in Danimarca, in meno di 20 anni, hanno potuto raggiungere una reale indipendenza dai sistemi non rinnovabili, riuscendo a realizzare sistemi in grado di affidarsi al 100% su energie rinnovabili, risparmiando così l’emissione di oltre 60 tonnellate di anidride carbonica.

A Montréal in Canada, Benoit Lavigueur ha impiegato gli ultimi sei anni dei suoi 29 alla lotta contro i cambiamenti climatici, costruendo la casa dei suoi sogni: un’abitazione costituita da materiali riciclabili e locali, che gli hanno permesso un risparmio energetico del 90 per cento e una certificazione LEED platinum, e che è la casa più ecofriendly di tutto il Quebeq.

 caption: un impianto eolico dell'isola di Samsø

caption: Benoit Lavigueur e la sua casa ecofriendly

Queste e molte altre storie sono presenti nel progetto sugli eroi del clima, con documentazione fotografica realizzata dall’autore del progetto, il fotografo Max Riché, che nel 2010 ha fondato l’ong Climate Heroes e per i successivi cinque anni, assieme ai sui amici e colleghi come Nicolas Beaumont e Luke Duggleby, è andato in ogni angolo del globo a caccia degli eroi del clima, personalità, cittadini o associazioni attive quotidianamente per combattere il cambiamento climatico.

Ciascuno può fare qualcosa nel suo piccolo per opporsi a comportamenti sbagliati, relativamente alla sostenibilità ambientale, e questi comportamenti positivi potrebbero propagarsi per salvaguardare il nostro meraviglioso pianeta.

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Gli eroi del clima contro il riscaldamento globale

Molteplici sono i volti, ed ognuno si porta dietro una meravigliosa storia: sono gli Eroi del Clima, persone che quotidianamente rispondono al surriscaldamento ed ai cambiamenti climatici globali, cercando di fare del proprio meglio per limitare i danni e ridurre l’impronta ecologica dell’impatto del vissuto umano sul pianeta Terra: sono state raccolte nel progetto Climate Heroes, su un sito dove è possibile non solo conoscere i fotografi del progetto, ma anche nominare e sostenere uno degli eroi ivi presenti.

In copertina: Isatou Ceesay, cofondatrice della Women Initiative the Gambia.

CAMBIAMENTI CLIMATICI: 17 PROGETTI PER CAMBIARE IL MONDO

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Tra gli Eroi del Clima che combattono contro il riscaldamento globale c’è Isatou Ceesay, a Banjul, in Gambia, che è cofondatrice della Women Initiative the Gambia e che per 17 anni si è impegnata per insegnare alle donne del suo territorio come poter trasformare i rifiuti plastici in fonte di reddito, proprio per eliminare uno dei maggiori responsabili delle emissioni di anidride carbonica in Africa; c’è il Venerabile Bun Saluth, che in Cambogia è riuscito, nel 2002 a far in modo che i monaci della pagoda di Samraog avessero riconosciuto legalmente il diritto alla salvaguardia di ben oltre 18 mila ettari di foresta sempreverde, nello stesso territorio.

caption: I monaci della pagoda di Samraog in Cambogia

Altro eroe rappresentato nel progetto è Brian Kjaer e gli abitanti dell’isola di Samsø, che in Danimarca, in meno di 20 anni, hanno potuto raggiungere una reale indipendenza dai sistemi non rinnovabili, riuscendo a realizzare sistemi in grado di affidarsi al 100% su energie rinnovabili, risparmiando così l’emissione di oltre 60 tonnellate di anidride carbonica.

A Montréal in Canada, Benoit Lavigueur ha impiegato gli ultimi sei anni dei suoi 29 alla lotta contro i cambiamenti climatici, costruendo la casa dei suoi sogni: un’abitazione costituita da materiali riciclabili e locali, che gli hanno permesso un risparmio energetico del 90 per cento e una certificazione LEED platinum, e che è la casa più ecofriendly di tutto il Quebeq.

 caption: un impianto eolico dell'isola di Samsø

caption: Benoit Lavigueur e la sua casa ecofriendly

Queste e molte altre storie sono presenti nel progetto sugli eroi del clima, con documentazione fotografica realizzata dall’autore del progetto, il fotografo Max Riché, che nel 2010 ha fondato l’ong Climate Heroes e per i successivi cinque anni, assieme ai sui amici e colleghi come Nicolas Beaumont e Luke Duggleby, è andato in ogni angolo del globo a caccia degli eroi del clima, personalità, cittadini o associazioni attive quotidianamente per combattere il cambiamento climatico.

Ciascuno può fare qualcosa nel suo piccolo per opporsi a comportamenti sbagliati, relativamente alla sostenibilità ambientale, e questi comportamenti positivi potrebbero propagarsi per salvaguardare il nostro meraviglioso pianeta.

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L’osteria ristrutturata con materiali di recupero

In un edificio addossato alle antiche mura della città di Castelfranco Veneto – provincia di Treviso – dove fino a poco tempo fa si trovavano alcuni uffici comunali, oggi è possibile degustare un buon vino accompagnato da un piatto tipico. L’architetto Anthony Bandiera, proprietario del locale e progettista, in collaborazione con Ideal Work, ha trasformato gli spazi anonimi e ordinari nell’Osteria del Maniscalco scovando in ogni angolo della città e dei dintorni oggetti e materiali di recupero.

PROGETTARE CON MATERIALI DI RECUPERO

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Il progetto dell’osteria

L’Osteria del Maniscalco nasce dal recupero di materiali e arredi. Il locale si sviluppa su due livelli: una scala in ferro conduce al livello superiore che si affaccia direttamente sulla sala a doppia altezza del piano terra. Gli spazi interni sono stati ridisegnati e ristrutturati per adattarsi alla nuova funzione, però materiali e strutture sono stati mantenuti e valorizzati. Le travi in legno del soffitto sono state ripristinate, la parete in mattoni addossata alle mura medievali è stata lasciata a vista, mentre tutte le altre superfici verticali sono state rivestite con vecchie assi in legno di rovere. I pavimenti invece sono stati rifatti per rispondere alle nuove esigenze.

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Molti elementi utilizzati sia per i rivestimenti che per i complementi d’arredo sono stati recuperati rovistando nelle stanze di vecchi casali della zona e nei mercatini dell’usato. I piani dei tavoli sono realizzati con assi di legno grezzo dello spessore di 3-4 cm utilizzate anche per rivestire il bancone mentre le sedie in ferro nero sono di recupero. Nuova invece è la vetrina espositiva dei vini in acciaio e vetro. L’intento è stato, infatti, quello non solo di riutilizzare e dare nuova vita a oggetti in disuso o del passato, ma anche quello di far dialogare antico e moderno.

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L’osteria ristrutturata con materiali di recupero

In un edificio addossato alle antiche mura della città di Castelfranco Veneto – provincia di Treviso – dove fino a poco tempo fa si trovavano alcuni uffici comunali, oggi è possibile degustare un buon vino accompagnato da un piatto tipico. L’architetto Anthony Bandiera, proprietario del locale e progettista, in collaborazione con Ideal Work, ha trasformato gli spazi anonimi e ordinari nell’Osteria del Maniscalco scovando in ogni angolo della città e dei dintorni oggetti e materiali di recupero.

PROGETTARE CON MATERIALI DI RECUPERO

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Il progetto dell’osteria

L’Osteria del Maniscalco nasce dal recupero di materiali e arredi. Il locale si sviluppa su due livelli: una scala in ferro conduce al livello superiore che si affaccia direttamente sulla sala a doppia altezza del piano terra. Gli spazi interni sono stati ridisegnati e ristrutturati per adattarsi alla nuova funzione, però materiali e strutture sono stati mantenuti e valorizzati. Le travi in legno del soffitto sono state ripristinate, la parete in mattoni addossata alle mura medievali è stata lasciata a vista, mentre tutte le altre superfici verticali sono state rivestite con vecchie assi in legno di rovere. I pavimenti invece sono stati rifatti per rispondere alle nuove esigenze.

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Molti elementi utilizzati sia per i rivestimenti che per i complementi d’arredo sono stati recuperati rovistando nelle stanze di vecchi casali della zona e nei mercatini dell’usato. I piani dei tavoli sono realizzati con assi di legno grezzo dello spessore di 3-4 cm utilizzate anche per rivestire il bancone mentre le sedie in ferro nero sono di recupero. Nuova invece è la vetrina espositiva dei vini in acciaio e vetro. L’intento è stato, infatti, quello non solo di riutilizzare e dare nuova vita a oggetti in disuso o del passato, ma anche quello di far dialogare antico e moderno.

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Le 20 migliori città per andare in bicicletta secondo il Copenhagenize Index

Copenhagenize Design Company è uno studio danese che si occupa di urbanistica e spinge per una maggiore diffusione delle biciclette. Ogni biennio stila una classifica delle 20 città che si presentano più vivibili rispetto alle novità introdotte per gli amanti della due ruote. Lo studio considera, per la redazione di questa classifica, sia criteri relativi alla qualità degli investimenti futuri programmati che alle caratteristiche delle infrastrutture per la bicicletta, oltre all’impegno di gruppi locali di associazioni e terzo settore impegnati nella promozione di caratteristiche positive a tale scopo.

Copenhagenize Index: la classifica delle 20 città che hanno preferito la bici nel 2013

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Città su due ruote: criteri e scopo della classifica

Sono state considerate, per redigere la classifica delle 20 migliori città che hanno scelto la bicicletta, le principali realtà urbane che abbiano importanza strategica a livello locale, per lo più con un numero di abitanti superiore a 600 mila. 

Per il 2015 la città prima in classifica è Copenhagen, che per la prima volta ha superato Amsterdam; tra le prime città molte sono europee e sono poche le eccezioni: Buenos Aires, Minneapolis e Montreal. Non ci sono città italiane in classifica.

L’obiettivo del Copenhagenize Index è quello di riportare la bicicletta ad essere un mezzo di trasporto flessibile, pratico e sicuro: questo è un obiettivo che indiscutibilmente tutto il mondo intende raggiungere.

Le città fonti d’ispirazione per questo studio sono non solo le città che promuovono l’uso di mezzi di trasporto alternativi all’automobile, ma quelle che cercano di restringere al massimo l’impiego di veicoli a motore per promuovere invece la rete ciclabile attraverso la realizzazione di opportune infrastrutture che permettano di viaggiare, con questo mezzo, in sicurezza e tranquillità.

I criteri per stilare la classifica sono stati: vocazione, cultura della bicicletta e relative facilitazioni, infrastrutture, programma di bike sharing, studio di genere, scambi intermodali e loro incremento, percezione della sicurezza, politica di programmazione, accettazione sociale, pianificazione urbana, effetti sul traffico.

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La classifica delle città più ciclabili al mondo

  1. Al primo posto della lista del Copenhagenize Index c’è Copenhagen, grazie ai costanti investimenti che sono stati fatti per migliorare le infrastrutture; 
  2. Amsterdam, resta una città eccellente per le bici, ha smesso di innovare e cercare nuove soluzioni per migliorare la qualità dei servizi per i ciclisti;  
  3. Utrecht, al terzo posto della classifica delle migliori 20 città dal 2011, è un’ottima città per andare in bici;  
  4. Strasburgo, dove sono stati costruiti 536 chilometri di piste ciclabili negli ultimi decenni, è da anni considerata la miglior città francese per le biciclette;  
  5. Eindhoven, presente nella classifica già dal 2011, senza tuttavia aver apportato, secondo i curatori, grosse innovazioni nel settore; 

    caption: Copenhagen, foto di barnyz via Flickrcaption: Amsterdam, foto di Ryan Taylorcaption: Utrecht, foto di Tom Juttecaption: Strasburgo, foto di ilovebuttercaption: Eindhoven, foto di Dan 

  6. Malmö, in cui da anni si investe con costanza e sapienza per migliorare le infrastrutture e la cultura delle bici: nel 2013 è stato aperto un grandissimo parcheggio per le bici nei pressi della stazione;
  7. Nantes, presente dal 2013 nella classifica del Copenhagenize Index, vede rafforzato l’impianto dedicato al sistema bicicletta grazie a costanti investimenti, ampiezza di vedute e collaborazione tra la città e le organizzazioni locali che già operavano nel settore delle bici; 
  8. Bordeaux, che perde tre posti in classifica delle migliori 20 città, perché non si percepisce lo stesso entusiasmo di qualche anno fa; tuttavia gli investimenti per le bici in città rimangono notevoli; 
  9. Anversa, si rivela la migliore città del Belgio per le bici, ma perde alcune posizioni a causa della nuova giunta comunale che sta cercando di “attirare più auto nel centro della città”;
  10. Siviglia, la migliore città spagnola per le biciclette, qualche anno fa arrivò al quarto posto in classifica, cambiando radicalmente in poco tempo la cultura delle bici in città. Da allora le cose non sono tuttavia cambiate molto, da qui il calo in classifica; 

    caption: Malmö, foto di La citta vitacaption: Nantes, foto di Fiona Campbellcaption: Bordeaux, foto di Yann Garcaption: Anversa, foto di Yelp Inc.caption: Siviglia, foto di adrimcm 

  11. Barcellona. Anni fa quasi non si vedevano biciclette in città, ora invece sono tantissime, grazie ad investimenti considerevoli per le infrastrutture e politiche per rendere la città più sicura per le bici e conquista l’undicesimo posto della classifica; 
  12. Berlino, con tantissimi ciclisti in giro, anche se le infrastrutture potrebbero essere decisamente migliori;  
  13. Lubiana, con costanti investimenti a partire dagli anni Settanta, la città entra per la prima volta nella top 20 grazie al rinnovato impegno delle ultime amministrazioni; 
  14. Buenos Aires, ove in pochissimo tempo sono stati costruiti ben 140 Km di piste ciclabili, generalmente divise dalla strada, ed è stato creato un buon servizio di bike sharing;
  15. Dublino, considerata da anni un’ottima città per le bici;

    caption: Barcellona, foto di naricecaption: Berlino, foto di Olley Coffeycaption: Lubiana, foto di Lubiana Mobility Weekcaption: Buenos Aires, foto di plaudi olivares medinacaption: Dublino, foto di Giuseppe Milo 

  16. Vienna, presente nella classifica del 2011 ma non in quella del 2013, torna ora grazie ai costanti investimenti che hanno esteso la rete di piste ciclabili anche fuori dal centro città, dove il traffico è limitato; 
  17. Parigi, che tra le grandi città del mondo è quella più attiva per le bici, anche se spesso mancano le conoscenze per scegliere le migliori soluzioni urbanistiche; i costanti investimenti degli ultimi anni e il successo del sistema di bike sharing, le consentono di stare nella classifica;  
  18. Minneapolis, la città statunitense ad essere inclusa nella classifica del Copenhagenize Index: ha raccolto molti punti bonus per l’impegno dimostrato negli ultimi anni da autorità locali e associazioni per migliorare la qualità dei servizi per le bici in città: per esempio ci sono quasi 400 Km di percorsi per le bici e piste ciclabili, sebbene infrastrutture e investimenti non siano ancora all’altezza delle grandi città europee;  
  19. Amburgo, dove sono presenti molte bici e una rete di piste ciclabili piuttosto ampia: le ultime amministrazioni, tuttavia, hanno scelto di non migliorarle in nessun modo;  
  20. Montreal, con ottime infrastrutture, molti ciclisti e diversi gruppi che si occupano di migliorare la situazione per le bici: da anni è una delle migliori città del Nord America per andare in bicicletta.

    caption: Vienna, foto di Ian Southwellcaption: Parigi, foto di Jean-Louis Zimmermancaption: Minneapolis, foto di Ernesto de Quesadacaption: Amburgo,foto di Rene Scaption: Montreal, foto di Lima Pix 

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Le 20 migliori città per andare in bicicletta secondo il Copenhagenize Index

Copenhagenize Design Company è uno studio danese che si occupa di urbanistica e spinge per una maggiore diffusione delle biciclette. Ogni biennio stila una classifica delle 20 città che si presentano più vivibili rispetto alle novità introdotte per gli amanti della due ruote. Lo studio considera, per la redazione di questa classifica, sia criteri relativi alla qualità degli investimenti futuri programmati che alle caratteristiche delle infrastrutture per la bicicletta, oltre all’impegno di gruppi locali di associazioni e terzo settore impegnati nella promozione di caratteristiche positive a tale scopo.

Copenhagenize Index: la classifica delle 20 città che hanno preferito la bici nel 2013

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Città su due ruote: criteri e scopo della classifica

Sono state considerate, per redigere la classifica delle 20 migliori città che hanno scelto la bicicletta, le principali realtà urbane che abbiano importanza strategica a livello locale, per lo più con un numero di abitanti superiore a 600 mila. 

Per il 2015 la città prima in classifica è Copenhagen, che per la prima volta ha superato Amsterdam; tra le prime città molte sono europee e sono poche le eccezioni: Buenos Aires, Minneapolis e Montreal. Non ci sono città italiane in classifica.

L’obiettivo del Copenhagenize Index è quello di riportare la bicicletta ad essere un mezzo di trasporto flessibile, pratico e sicuro: questo è un obiettivo che indiscutibilmente tutto il mondo intende raggiungere.

Le città fonti d’ispirazione per questo studio sono non solo le città che promuovono l’uso di mezzi di trasporto alternativi all’automobile, ma quelle che cercano di restringere al massimo l’impiego di veicoli a motore per promuovere invece la rete ciclabile attraverso la realizzazione di opportune infrastrutture che permettano di viaggiare, con questo mezzo, in sicurezza e tranquillità.

I criteri per stilare la classifica sono stati: vocazione, cultura della bicicletta e relative facilitazioni, infrastrutture, programma di bike sharing, studio di genere, scambi intermodali e loro incremento, percezione della sicurezza, politica di programmazione, accettazione sociale, pianificazione urbana, effetti sul traffico.

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La classifica delle città più ciclabili al mondo

  1. Al primo posto della lista del Copenhagenize Index c’è Copenhagen, grazie ai costanti investimenti che sono stati fatti per migliorare le infrastrutture; 
  2. Amsterdam, resta una città eccellente per le bici, ha smesso di innovare e cercare nuove soluzioni per migliorare la qualità dei servizi per i ciclisti;  
  3. Utrecht, al terzo posto della classifica delle migliori 20 città dal 2011, è un’ottima città per andare in bici;  
  4. Strasburgo, dove sono stati costruiti 536 chilometri di piste ciclabili negli ultimi decenni, è da anni considerata la miglior città francese per le biciclette;  
  5. Eindhoven, presente nella classifica già dal 2011, senza tuttavia aver apportato, secondo i curatori, grosse innovazioni nel settore; 

    caption: Copenhagen, foto di barnyz via Flickrcaption: Amsterdam, foto di Ryan Taylorcaption: Utrecht, foto di Tom Juttecaption: Strasburgo, foto di ilovebuttercaption: Eindhoven, foto di Dan 

  6. Malmö, in cui da anni si investe con costanza e sapienza per migliorare le infrastrutture e la cultura delle bici: nel 2013 è stato aperto un grandissimo parcheggio per le bici nei pressi della stazione;
  7. Nantes, presente dal 2013 nella classifica del Copenhagenize Index, vede rafforzato l’impianto dedicato al sistema bicicletta grazie a costanti investimenti, ampiezza di vedute e collaborazione tra la città e le organizzazioni locali che già operavano nel settore delle bici; 
  8. Bordeaux, che perde tre posti in classifica delle migliori 20 città, perché non si percepisce lo stesso entusiasmo di qualche anno fa; tuttavia gli investimenti per le bici in città rimangono notevoli; 
  9. Anversa, si rivela la migliore città del Belgio per le bici, ma perde alcune posizioni a causa della nuova giunta comunale che sta cercando di “attirare più auto nel centro della città”;
  10. Siviglia, la migliore città spagnola per le biciclette, qualche anno fa arrivò al quarto posto in classifica, cambiando radicalmente in poco tempo la cultura delle bici in città. Da allora le cose non sono tuttavia cambiate molto, da qui il calo in classifica; 

    caption: Malmö, foto di La citta vitacaption: Nantes, foto di Fiona Campbellcaption: Bordeaux, foto di Yann Garcaption: Anversa, foto di Yelp Inc.caption: Siviglia, foto di adrimcm 

  11. Barcellona. Anni fa quasi non si vedevano biciclette in città, ora invece sono tantissime, grazie ad investimenti considerevoli per le infrastrutture e politiche per rendere la città più sicura per le bici e conquista l’undicesimo posto della classifica; 
  12. Berlino, con tantissimi ciclisti in giro, anche se le infrastrutture potrebbero essere decisamente migliori;  
  13. Lubiana, con costanti investimenti a partire dagli anni Settanta, la città entra per la prima volta nella top 20 grazie al rinnovato impegno delle ultime amministrazioni; 
  14. Buenos Aires, ove in pochissimo tempo sono stati costruiti ben 140 Km di piste ciclabili, generalmente divise dalla strada, ed è stato creato un buon servizio di bike sharing;
  15. Dublino, considerata da anni un’ottima città per le bici;

    caption: Barcellona, foto di naricecaption: Berlino, foto di Olley Coffeycaption: Lubiana, foto di Lubiana Mobility Weekcaption: Buenos Aires, foto di plaudi olivares medinacaption: Dublino, foto di Giuseppe Milo 

  16. Vienna, presente nella classifica del 2011 ma non in quella del 2013, torna ora grazie ai costanti investimenti che hanno esteso la rete di piste ciclabili anche fuori dal centro città, dove il traffico è limitato; 
  17. Parigi, che tra le grandi città del mondo è quella più attiva per le bici, anche se spesso mancano le conoscenze per scegliere le migliori soluzioni urbanistiche; i costanti investimenti degli ultimi anni e il successo del sistema di bike sharing, le consentono di stare nella classifica;  
  18. Minneapolis, la città statunitense ad essere inclusa nella classifica del Copenhagenize Index: ha raccolto molti punti bonus per l’impegno dimostrato negli ultimi anni da autorità locali e associazioni per migliorare la qualità dei servizi per le bici in città: per esempio ci sono quasi 400 Km di percorsi per le bici e piste ciclabili, sebbene infrastrutture e investimenti non siano ancora all’altezza delle grandi città europee;  
  19. Amburgo, dove sono presenti molte bici e una rete di piste ciclabili piuttosto ampia: le ultime amministrazioni, tuttavia, hanno scelto di non migliorarle in nessun modo;  
  20. Montreal, con ottime infrastrutture, molti ciclisti e diversi gruppi che si occupano di migliorare la situazione per le bici: da anni è una delle migliori città del Nord America per andare in bicicletta.

    caption: Vienna, foto di Ian Southwellcaption: Parigi, foto di Jean-Louis Zimmermancaption: Minneapolis, foto di Ernesto de Quesadacaption: Amburgo,foto di Rene Scaption: Montreal, foto di Lima Pix 

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La foresta galleggiante nel porto di Rotterdam: Bobbing Forest

“Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa, il secondo momento migliore è adesso” affermava Confucio. In contesti come quelli portuali però, dove è il cemento a far da padrone, la possibilità di ricavare spazi verdi può essere considerata quasi un miraggio. Una brillante soluzione a tale problema è stata trovata a Rotterdam dove, tra poco più di un mese, verrà presentata la prima foresta galleggiante al mondo: la “Bobbing Forest”. 

In copertina: foto da DobberendBos.nl

Il progetto della BOBBING FOREST

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caption: foto da DobberendBos.nl

Gli olandesi, sempre più impazienti per la realizzazione del progetto della Bobbing Forest, sono ancora increduli di fronte all’eco internazionale che l’iniziativa della foresta galleggiante ha avuto; d’altronde si sa, quando passione per l’arte e cura del verde si incontrano nel medesimo progetto non può che venir fuori qualcosa di sorprendente!

Saranno sufficienti poche settimane per completare l’installazione; tutto dovrà essere pronto per il 16 marzo, giorno dell’inaugurazione e, non a caso, Giornata Nazionale dell’Albero. In tale occasione a Rotterdam saranno messi in acqua ed ancorati sul fondo del bacino portuale di Rijnhaven “20 alberi galleggianti”, mentre un ventunesimo sarà lasciato sulla banchina in modo che residenti e turisti possano osservarlo da vicino.

L’obiettivo è quello di offrire un valido contributo alla lotta per i cambiamenti climatici ma soprattutto porre l’accento sulla necessità dell’innalzamento della qualità della vita nelle città; la foresta galleggiante vuole essere un esempio per le nuove generazioni, un simbolo dell’importanza delle aree verdi all’interno del centro abitato.

L’idea della foresta galleggiante

La Bobbing Forest è la versione a scala naturale della scultura che Jorge Bakker, artista colombiano ma olandese di adozione, ha realizzato nel 2012: un acquario contenente alberi in scala sospesi sull’acqua tramite galleggianti.

caption: foto da Onderwerper.nl

“In Search of Habitats” (letteralmente “in cerca di habitat”) è l’evocativo titolo dell’opera che usa elementi naturali come acqua e piante per indurre l’osservatore ad una riflessione: che rapporto i cittadini hanno con la natura e come entrambi si relazionano con l’ambiente che li circonda?

Il messaggio non è passato inosservato a Jeroen Everaert, responsabile del centro di produzione culturale Mothership, Anne van der Zwaag, storica d’arte e imprenditore culturale, e al designer olandese Jurgen Bey, tanto da spingerli a “spostare l’asticella un po’ più in alto”, cercando di espandere tale concetto nella vita reale.

caption: foto da DobberendBos.nl

È nato così un progetto tanto avvincente sulla carta quanto pieno di ostacoli nella realtà.

Le molteplici sfide (tecniche, ambientali ed economiche) non hanno fatto altro che alimentare la voglia di fare degli ideatori, portando sin da subito Motheriship a cercare collaboratori all’altezza della situazione, in grado di uscire fuori dagli schemi e trovare soluzioni innovative per la foresta galleggiante.

Il risultato finale è frutto di un lavoro sinergico in cui, a professionisti dalla consolidata esperienza, sono stati affiancati giovani in grado di andare oltre i comuni parametri, grazie alla freschezza delle loro idee.

Le sfide del progetto della Bobbing Forest

Come ironizzato dallo stesso Evereat, anche gli alberi, come tutti gli esseri viventi, “soffrono il mal di mare”.

Il primo problema da risolvere era perciò quello di individuare le specie vegetali che potessero sopravvivere alla “vita galleggiante”; inoltre le boe dovevano essere in grado di tenere in piedi gli alberi senza che questi si ribaltassero.

caption: foto da DobberendBos.nl

Le ricerche effettuate da un gruppo di studenti della Facoltà di Scienze Applicate dell’Università di Van Hall Larenstein hanno permesso di escogitare il sistema più efficace per mantenere in vita le piante nelle acque salmastre del porto oltre che individuare la specie arborea più idonea: l’Olmo Olandese (Ulmus x hollandica “Major”). Connotato dalla capacità di crescere rapidamente, il legno duro che lo caratterizza è infatti in grado di resistere all’azione del vento e dell’acqua; necessita inoltre di poca potatura.

Le sperimentazioni necessarie ad impedire il ribaltamento delle boe della Bobbing Forest, soprattutto nei periodi di burrasca, sono state condotte da un team di aspiranti ingegneri civili della Delft University of Technology. I calcoli effettuati hanno evidenziato la necessità di apportare modifiche alle boe standard; le variazioni sono state realizzate da una Società di produzione dell’acciaio, grazie al lavoro di alcuni giovani tirocinanti sulla base dei disegni esecutivi del gruppo di progettazione strutturale.

Nel corso del periodo di ricerca, nel Marzo 2014, è stato lanciato con successo un primo prototipo; per il completamento dell’opera manca solo il delicato compito dell’assemblaggio finale.

caption: a sinistra l’assessore Alexandra van Huffelen durante il lancio del primo prototipo nel 2014. L’albero era spoglio. A destra i prototipi dopo il monitoraggio di 6 mesi: gli alberi si sono riempiti di foglie! Foto da Dobberendbos.nl

La foresta galleggiante di Rotterdam un progetto sostenibile

Oltre a quelli dei gruppi di ricerca universitari, fondamentali sono stati gli sforzi messi in campo da diverse autorità, sia locali che nazionali. Il loro prezioso contribuito ha fatto sì che, durante il lungo iter progettuale, non fosse mai perso di vista l’obiettivo cardine del progetto: la sostenibilità.

La maggior parte dei materiali utilizzati per la realizzazione della Bobbing Forest sono infatti riciclati.

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caption: foto da DobberendBos.nl

La Rijkswaterstaat, Agenzia del Ministero delle Infrastrutture e dell’Ambiente, ha messo a disposizione 20 boe utilizzate nel Mar del Nord e in via di dismissione.

Gli olmi sono stati donati dalla Bomendepot, una struttura del Comune che si occupa dello “stoccaggio del alberi”; da un po’ di anni infatti la città di Rotterdam ha deciso di adottare una politica volta alla tutela degli alberi negli spazi pubblici: ogni volta che un pezzo di città viene rinnovata, gli arbusti non più adatti al nuovo contesto non vengono abbattuti ma stipati in attesa di una nuova collocazione.

Ruolo chiave è stato infine svolto dalla piattaforma per l’innovazione di Rotterdam, CityLab010, che ha permesso la fattibilità economica del progetto.

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La foresta galleggiante nel porto di Rotterdam: Bobbing Forest

“Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa, il secondo momento migliore è adesso” affermava Confucio. In contesti come quelli portuali però, dove è il cemento a far da padrone, la possibilità di ricavare spazi verdi può essere considerata quasi un miraggio. Una brillante soluzione a tale problema è stata trovata a Rotterdam dove, tra poco più di un mese, verrà presentata la prima foresta galleggiante al mondo: la “Bobbing Forest”. 

In copertina: foto da DobberendBos.nl

Il progetto della BOBBING FOREST

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caption: foto da DobberendBos.nl

Gli olandesi, sempre più impazienti per la realizzazione del progetto della Bobbing Forest, sono ancora increduli di fronte all’eco internazionale che l’iniziativa della foresta galleggiante ha avuto; d’altronde si sa, quando passione per l’arte e cura del verde si incontrano nel medesimo progetto non può che venir fuori qualcosa di sorprendente!

Saranno sufficienti poche settimane per completare l’installazione; tutto dovrà essere pronto per il 16 marzo, giorno dell’inaugurazione e, non a caso, Giornata Nazionale dell’Albero. In tale occasione a Rotterdam saranno messi in acqua ed ancorati sul fondo del bacino portuale di Rijnhaven “20 alberi galleggianti”, mentre un ventunesimo sarà lasciato sulla banchina in modo che residenti e turisti possano osservarlo da vicino.

L’obiettivo è quello di offrire un valido contributo alla lotta per i cambiamenti climatici ma soprattutto porre l’accento sulla necessità dell’innalzamento della qualità della vita nelle città; la foresta galleggiante vuole essere un esempio per le nuove generazioni, un simbolo dell’importanza delle aree verdi all’interno del centro abitato.

L’idea della foresta galleggiante

La Bobbing Forest è la versione a scala naturale della scultura che Jorge Bakker, artista colombiano ma olandese di adozione, ha realizzato nel 2012: un acquario contenente alberi in scala sospesi sull’acqua tramite galleggianti.

caption: foto da Onderwerper.nl

“In Search of Habitats” (letteralmente “in cerca di habitat”) è l’evocativo titolo dell’opera che usa elementi naturali come acqua e piante per indurre l’osservatore ad una riflessione: che rapporto i cittadini hanno con la natura e come entrambi si relazionano con l’ambiente che li circonda?

Il messaggio non è passato inosservato a Jeroen Everaert, responsabile del centro di produzione culturale Mothership, Anne van der Zwaag, storica d’arte e imprenditore culturale, e al designer olandese Jurgen Bey, tanto da spingerli a “spostare l’asticella un po’ più in alto”, cercando di espandere tale concetto nella vita reale.

caption: foto da DobberendBos.nl

È nato così un progetto tanto avvincente sulla carta quanto pieno di ostacoli nella realtà.

Le molteplici sfide (tecniche, ambientali ed economiche) non hanno fatto altro che alimentare la voglia di fare degli ideatori, portando sin da subito Motheriship a cercare collaboratori all’altezza della situazione, in grado di uscire fuori dagli schemi e trovare soluzioni innovative per la foresta galleggiante.

Il risultato finale è frutto di un lavoro sinergico in cui, a professionisti dalla consolidata esperienza, sono stati affiancati giovani in grado di andare oltre i comuni parametri, grazie alla freschezza delle loro idee.

Le sfide del progetto della Bobbing Forest

Come ironizzato dallo stesso Evereat, anche gli alberi, come tutti gli esseri viventi, “soffrono il mal di mare”.

Il primo problema da risolvere era perciò quello di individuare le specie vegetali che potessero sopravvivere alla “vita galleggiante”; inoltre le boe dovevano essere in grado di tenere in piedi gli alberi senza che questi si ribaltassero.

caption: foto da DobberendBos.nl

Le ricerche effettuate da un gruppo di studenti della Facoltà di Scienze Applicate dell’Università di Van Hall Larenstein hanno permesso di escogitare il sistema più efficace per mantenere in vita le piante nelle acque salmastre del porto oltre che individuare la specie arborea più idonea: l’Olmo Olandese (Ulmus x hollandica “Major”). Connotato dalla capacità di crescere rapidamente, il legno duro che lo caratterizza è infatti in grado di resistere all’azione del vento e dell’acqua; necessita inoltre di poca potatura.

Le sperimentazioni necessarie ad impedire il ribaltamento delle boe della Bobbing Forest, soprattutto nei periodi di burrasca, sono state condotte da un team di aspiranti ingegneri civili della Delft University of Technology. I calcoli effettuati hanno evidenziato la necessità di apportare modifiche alle boe standard; le variazioni sono state realizzate da una Società di produzione dell’acciaio, grazie al lavoro di alcuni giovani tirocinanti sulla base dei disegni esecutivi del gruppo di progettazione strutturale.

Nel corso del periodo di ricerca, nel Marzo 2014, è stato lanciato con successo un primo prototipo; per il completamento dell’opera manca solo il delicato compito dell’assemblaggio finale.

caption: a sinistra l’assessore Alexandra van Huffelen durante il lancio del primo prototipo nel 2014. L’albero era spoglio. A destra i prototipi dopo il monitoraggio di 6 mesi: gli alberi si sono riempiti di foglie! Foto da Dobberendbos.nl

La foresta galleggiante di Rotterdam un progetto sostenibile

Oltre a quelli dei gruppi di ricerca universitari, fondamentali sono stati gli sforzi messi in campo da diverse autorità, sia locali che nazionali. Il loro prezioso contribuito ha fatto sì che, durante il lungo iter progettuale, non fosse mai perso di vista l’obiettivo cardine del progetto: la sostenibilità.

La maggior parte dei materiali utilizzati per la realizzazione della Bobbing Forest sono infatti riciclati.

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caption: foto da DobberendBos.nl

La Rijkswaterstaat, Agenzia del Ministero delle Infrastrutture e dell’Ambiente, ha messo a disposizione 20 boe utilizzate nel Mar del Nord e in via di dismissione.

Gli olmi sono stati donati dalla Bomendepot, una struttura del Comune che si occupa dello “stoccaggio del alberi”; da un po’ di anni infatti la città di Rotterdam ha deciso di adottare una politica volta alla tutela degli alberi negli spazi pubblici: ogni volta che un pezzo di città viene rinnovata, gli arbusti non più adatti al nuovo contesto non vengono abbattuti ma stipati in attesa di una nuova collocazione.

Ruolo chiave è stato infine svolto dalla piattaforma per l’innovazione di Rotterdam, CityLab010, che ha permesso la fattibilità economica del progetto.

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Il progetto degli elementi di arredo urbano nello spazio pubblico

Gli arredi urbani puntellano le nostre città. Elementi di design o oggetti puramente funzionali, senza di essi lo spazio pubblico sarebbe più povero, spoglio e meno vivibile rispetto alle necessità dei cittadini. È questo uno dei motivi per cui il progetto della città deve avere un occhio di riguardo anche per la qualità delle sedute o il funzionamento dei dissuasori per l’ottimizzazione della viabilità.

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La progettazione dello spazio pubblico, nella città storica consolidata e in quella contemporanea di recente espansione, è costantemente oggetto di studio da parte dei progettisti, intenti a misurarsi con la frequente necessità di interventi che adeguino gli spazi urbani al gusto di chi quegli spazi li governa e li vive anche attraverso gli arredi. La stessa fruizione degli spazi aperti da parte dei cittadini può mutare e piegarsi alle scelte progettuali, e talvolta essere compromessa da lavori o elementi che non hanno risposto a precisi requisiti.
Da qui la necessità di compiere scelte lungimiranti sul futuro dei nostri quartieri e che rispondano ad un preciso progetto di immagine della città, sia che si parli di edifici che in tema di arredi urbani.

Elementi dell’arredo urbano tra tradizione e innovazione

Con il termine “arredo urbano” si indica una serie vasta e variegata di dispositivi che, dalle panchine alle buchette postali, svolgono funzioni precise all’interno dello spazio pubblico. Troppo spesso trattati come semplici oggetti da posizionare agli angoli delle strade, questi elementi possono (e devono) essere occasione di riflessione di progetto per gli architetti che hanno la possibilità di ridisegnare porzioni di città. 
Cestini, lampioni, dissuasori, persino cabine telefoniche, se ben scelti e progettati possono arricchire lo spazio cittadino anziché banalizzarlo: le cabine rosse di Londra sono un perfetto esempio di come un elemento di arredo sia diventato simbolo della città.

Nell’ultimo secolo i momenti di creatività si sono moltiplicati insieme alla necessità di comunicare informazioni ai cittadini ed ecco cartelloni pubblicitari, semafori, bacheche e tabelloni informativi a LED spuntare come funghi, talvolta seguendo fedelmente una precisa linea grafica di progetto, altre volte rispondendo ad una necessità emersa all’improvviso e velocemente risolta.

Lo spazio pubblico non è solo un grande contenitore di attività per il terziario ed il tempo libero, ma uno spazio collettivo che va attrezzato per accogliere ogni attività. Recenti interventi di rigenerazione urbana possono fornirci esempi di come si possa riprogettare l’ambiente urbano con arredi del tutto originali.

Nel cuore di Copenhagen Bjarke Ingels Group, assieme ai paesaggisti Topotek1 e al collettivo Superflex, ha realizzato Superkilen, un parco pubblico di 30.000 mq commissionato dal Comune pensato per rappresentare al suo interno ben 57 comunità etniche. Colori diversi contraddistinguono le aree del parco dove, tra alberi e piste ciclabili, è possibile parcheggiare le bici nelle rastrelliere provenienti dalla Norvegia, o giocare a scacchi sui tavoli da gioco arrivati da Brasile e Belgio.

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Diversa ambientazione per il progetto dello studio RS+ che sul lago di Paprocany, in Polonia, interviene con un progetto di rigenerazione urbana e valorizzazione paesaggistica del lungolago. Una promenade in legno si snoda lungo la riva del lago polacco dove, con materiali diversi e adatti ai luoghi, si delineano aree pedonali, ciclabili, aree attrezzate per gli allenamenti sportivi e le attività ludiche dei più piccoli. Per le aree pedonali sono impiegate panchine e ringhiere in materiale resinoso, mentre per la palestra all’aperto sono stati utilizzati degli inerti minerali granulosi. Infine luci LED illuminano i percorsi di notte.

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Con le nuove tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili possiamo definire come arredi urbani anche alcune soluzioni green, come le pensiline fotovoltaiche per l’attesa dei bus realizzate da City Design, le postazioni urbane per l’alimentazione dei dispositivi elettronici o gli alberi eolici costituiti da microturbine al posto delle foglie.
E che questi elementi di arredo urbano siano costantemente in aggiornamento lo dimostrano anche le nuove cabine telefoniche londinesi, non più rosse ma verdissime dentro e fuori. Le nuove green cabs si chiameranno SolarBox e non conterranno più un telefono pubblico, bensì una postazione per ricaricare fino a 4 smartphone.

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Il progetto degli elementi di arredo urbano nello spazio pubblico

Gli arredi urbani puntellano le nostre città. Elementi di design o oggetti puramente funzionali, senza di essi lo spazio pubblico sarebbe più povero, spoglio e meno vivibile rispetto alle necessità dei cittadini. È questo uno dei motivi per cui il progetto della città deve avere un occhio di riguardo anche per la qualità delle sedute o il funzionamento dei dissuasori per l’ottimizzazione della viabilità.

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La progettazione dello spazio pubblico, nella città storica consolidata e in quella contemporanea di recente espansione, è costantemente oggetto di studio da parte dei progettisti, intenti a misurarsi con la frequente necessità di interventi che adeguino gli spazi urbani al gusto di chi quegli spazi li governa e li vive anche attraverso gli arredi. La stessa fruizione degli spazi aperti da parte dei cittadini può mutare e piegarsi alle scelte progettuali, e talvolta essere compromessa da lavori o elementi che non hanno risposto a precisi requisiti.
Da qui la necessità di compiere scelte lungimiranti sul futuro dei nostri quartieri e che rispondano ad un preciso progetto di immagine della città, sia che si parli di edifici che in tema di arredi urbani.

Elementi dell’arredo urbano tra tradizione e innovazione

Con il termine “arredo urbano” si indica una serie vasta e variegata di dispositivi che, dalle panchine alle buchette postali, svolgono funzioni precise all’interno dello spazio pubblico. Troppo spesso trattati come semplici oggetti da posizionare agli angoli delle strade, questi elementi possono (e devono) essere occasione di riflessione di progetto per gli architetti che hanno la possibilità di ridisegnare porzioni di città. 
Cestini, lampioni, dissuasori, persino cabine telefoniche, se ben scelti e progettati possono arricchire lo spazio cittadino anziché banalizzarlo: le cabine rosse di Londra sono un perfetto esempio di come un elemento di arredo sia diventato simbolo della città.

Nell’ultimo secolo i momenti di creatività si sono moltiplicati insieme alla necessità di comunicare informazioni ai cittadini ed ecco cartelloni pubblicitari, semafori, bacheche e tabelloni informativi a LED spuntare come funghi, talvolta seguendo fedelmente una precisa linea grafica di progetto, altre volte rispondendo ad una necessità emersa all’improvviso e velocemente risolta.

Lo spazio pubblico non è solo un grande contenitore di attività per il terziario ed il tempo libero, ma uno spazio collettivo che va attrezzato per accogliere ogni attività. Recenti interventi di rigenerazione urbana possono fornirci esempi di come si possa riprogettare l’ambiente urbano con arredi del tutto originali.

Nel cuore di Copenhagen Bjarke Ingels Group, assieme ai paesaggisti Topotek1 e al collettivo Superflex, ha realizzato Superkilen, un parco pubblico di 30.000 mq commissionato dal Comune pensato per rappresentare al suo interno ben 57 comunità etniche. Colori diversi contraddistinguono le aree del parco dove, tra alberi e piste ciclabili, è possibile parcheggiare le bici nelle rastrelliere provenienti dalla Norvegia, o giocare a scacchi sui tavoli da gioco arrivati da Brasile e Belgio.

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Diversa ambientazione per il progetto dello studio RS+ che sul lago di Paprocany, in Polonia, interviene con un progetto di rigenerazione urbana e valorizzazione paesaggistica del lungolago. Una promenade in legno si snoda lungo la riva del lago polacco dove, con materiali diversi e adatti ai luoghi, si delineano aree pedonali, ciclabili, aree attrezzate per gli allenamenti sportivi e le attività ludiche dei più piccoli. Per le aree pedonali sono impiegate panchine e ringhiere in materiale resinoso, mentre per la palestra all’aperto sono stati utilizzati degli inerti minerali granulosi. Infine luci LED illuminano i percorsi di notte.

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Con le nuove tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili possiamo definire come arredi urbani anche alcune soluzioni green, come le pensiline fotovoltaiche per l’attesa dei bus realizzate da City Design, le postazioni urbane per l’alimentazione dei dispositivi elettronici o gli alberi eolici costituiti da microturbine al posto delle foglie.
E che questi elementi di arredo urbano siano costantemente in aggiornamento lo dimostrano anche le nuove cabine telefoniche londinesi, non più rosse ma verdissime dentro e fuori. Le nuove green cabs si chiameranno SolarBox e non conterranno più un telefono pubblico, bensì una postazione per ricaricare fino a 4 smartphone.

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Le Turf Houses islandesi candidate a patrimonio Unesco

“Turf”, in inglese, significa torba, ed è con questo materiale assolutamente naturale che in Islanda, fin dal nono secolo, si ricoprono i tetti delle case mantenendo inalterato nel tempo il tradizionale metodo costruttivo che le rende più affascinanti che mai e capaci di raccontare una loro storia. Una tradizione che ha fatto sì che queste singolari abitazioni (Turf houses, appunto) fossero candidate a Patrimonio Unesco

TETTI VERDI: SONO SICURI?

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Storia ed origini delle Turf Houses islandesi

Furono i coloni provenienti dal nord, come i Vichinghi, che introdussero questa nuova tecnica per contrastare in modo adeguato i climi rigidi invernali tipici di queste latitudini.

Ma, a differenza di paesi come la Norvegia, l’Irlanda, la Scozia, l’Olanda e la Groenlandia, dove la pratica di ricoprire i tetti di “turf” fu usata per realizzare abitazioni per le persone più povere, in Islanda le cose andarono diversamente; la tecnica del tappeto erboso fu introdotta per tutti i tipi di edifici e per tutte le classi economiche senza creare differenze tra ricchi e poveri, dalle residenze dei capi a quelle dei contadini, dagli edifici religiosi ai ricoveri per gli animali.

Ed è questo il principale motivo che le ha fatte candidare a Patrimonio Unesco come eccezionale esempio di “architettura vernacolare” (dal latino vernaculum, tutto ciò che era realizzato localmente).

L’evoluzione delle Turf Houses

Nel corso dei secoli, le turf houses, pur mantenendo i medesimi materiali da costruzione, hanno subito un’evoluzione nella forma, adattandosi di volta in volta al contesto e al mutare delle esigenze. Si è così passati dalla casa allungata stile nordico usata per lavorare e dormire, a più case collegate fra loro da un corridoio centrale, con una parte sopraelevata adibita a zona notte, ben riscaldata e isolata dall’ingresso.

Oggi queste case non sono tutte abitate, molte sono totalmente abbandonate oppure usate come depositi; restano in ogni caso la testimonianza diretta di una lunga tradizione storica e un solido collegamento con il passato, evidenziando il loro ruolo nel paesaggio rurale della campagna islandese. Da qui l’interesse culturale rivolto a queste costruzioni e sfociato nella candidatura Unesco.

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Come sono fatte le “case di torba”

Oltre alla torba che ricopre la sommità e le pareti, per la struttura si usano il legno e la pietra che, in certi casi, forma la base per il tetto. La durata di questi materiali è molto variabile. La torba subisce un inevitabile processo di deterioramento e va sostituita dopo i 20-70 anni in base a una serie di fattori che variano dalla sua composizione, al clima locale e all’abilità degli artigiani.

L’utilizzo della torba per la realizzazione dei tetti delle Turf Houses presenta molti vantaggi: si trova abbondantemente in Islanda ed è gratuita, trattiene bene il calore mantenendo uniforme la temperatura interna e non lascia passare le infiltrazioni d’aria. Pietre e legname possono essere invece riutilizzati.

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La casa laboratorio in una stalla del 1891

Un antico edificio rurale del 1891 situato ai margini di una stretta via di campagna in località Lasagnana, frazione di Val Parma (Parma) è stato trasformato in casa-studio per una giovane coppia. I vincoli sono diventati l’elemento generatore del progetto sull’ex stalla curato dall’architetto Francesco Di Gregorio. Muri, porte e finestre esistenti sono stati sapientemente integrati con la nuova funzione abitativa della casa-laboratorio e l’unitarietà dello spazio interno è stata salvaguardata.

LA VECCHIA STALLA CONVERTITA IN ABITAZIONE

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La struttura originaria della stalla è stata consolidata, è stata inserita una sottofondazione ed è stato creato un nuovo pavimento uniforme in cemento per la casa-laboratorio. Gli antichi spessi muri in pietra e le colonne in mattoni con capitelli lapidei sorreggono ancora i soffitti a voltine: gli elementi verticali sono stati lasciati a vista, mentre quelli orizzontali sono stati intonacati di colore bianco. Non volendo alterare l’aspetto esterno dell’edificio del 1891 e aprire nuove finestre, tutte le scelte compositive hanno cercato di non ostacolare il passaggio della luce naturale.

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La casa si sviluppa su di un unico livello senza partizioni fisse. Una serie di tende leggere è appesa ai cavi d’acciaio tesi tra una colonna e l’altra e permette di separare la zona dedicata al sonno, la zona dedicata al laboratorio e quella dedicata alla convivialità. La griglia di cavi serve inoltre per portare l’elettricità nei diversi punti dell’abitazione in maniera flessibile a seconda delle esigenze e senza forare i muri.

L’unico elemento costruito ex-novo è il bagno costituito da un parallelepipedo bianco inserito all’interno dello spazio voltato e rivestito in piastrelle quadrate di ceramica di dimensione 10×10 cm. All’interno sono inserite le funzioni, mentre i percorsi sono portati all’esterno: il lavandino e la doccia si aprono, infatti, direttamente verso la zona degli armadi e la zona del riposo.

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La crisi dell’organismo urbano e il limite di crescenza

Mi aggiro, cittadino osservatore, nella città asfaltata ormai luogo di espressione della volontà di una nuova ed ennesima generazione di parcheggiatori e produttori di cemento, in realtà politici forti della loro ignoranza. Esponenti di un non sapere collettivo che le loro azioni amplificano. Vedo un’epoca che scoppia di dinamismo. Non vuole saperne di pensieri, chiede soltanto azioni.

Cammino sempre più convinto che questa energia, negativa e distruttrice, provenga unicamente dal fatto che non si ha nulla da fare, interiormente. A ben pensare, però, anche esteriormente ciascuno non fa altro che ripetere per tutta la vita la stessa identica azione: entra in un ruolo sociale, identificato da un’attività professionale e così continua per tutta la vita. 

LA DECRESCITÀ PER RIDARE SPAZIO ALLA NATURA

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Nei cittadini non c’è agitazione. Sono complici della diffusione del “metro cubo edificabile”, il virus degenerativo della città e del paesaggio, il nostro intorno, terra che tace come consapevole della forza che troverà, un giorno, per superare le torture subite. Questo virus, esaurito l’intorno di cui nutrirsi, il suolo, non potrà più crescere e darà inizio ad un processo auto-distruttivo. Il successivo passaggio sarà il collasso, un momento di crollo, di abbandono, di riappropriazione, in definitiva di felicità. E sarà una festa.

Il limite di crescenza

Questo pensiero ricorrente mi ha fatto riflettere sul “limite di crescenza” (R. Musil), misterioso limite che vale per la vita organica, per cui nessun animale cresce all’infinito. Noi, in quanto esseri umani, abbiamo la stessa misteriosa caratteristica e non continuiamo a crescere all’infinito, fisicamente non subiamo variazioni apprezzabili, infatti la nostra voce non avrà mai la forza di un megafono e così i nostri piedi e le nostre dita manterranno le loro dimensioni nel tempo. In quanto società, invece, siamo incapaci di accogliere il concetto di limite di crescenza e questo è evidente in svariati ambiti e discipline, dal design all’architettura, dalle dimensioni della città fino agli oggetti di uso comune, come le automobili. Ad esempio oggi un’utilitaria ha dimensioni paragonabili e spesso superiori a quelle di un’automobile di categoria superiore di solo qualche anno fa.

Purtroppo, anche in architettura, è ormai pratica comune quella di creare qualcosa che sia sempre “più”. Più grande e più costoso del già costruito e che si distingua a tutti i costi gridando la sua presenza ai passanti.

Dietro a questa crescita illimitata c’è un evidente problema culturale del mercato. 

Stiamo vivendo un eccesso di barocchismo, seguendo i capricci di una clientela che non ha cultura ed è affascinata da forme fini a sé stesse, dove un’esuberanza di motivi porta i progettisti ad andare al di là dei rapporti proporzionali, della logica di pensiero e di produzione. L’essenziale è perduto, quell’idea di progetto che non era sinonimo di povero ma di coerenza, di intelligenza e leggerezza. In molte architetture si è perso il momento del silenzio, della riflessione e della stasi dell’edificio, capitolati sotto le richieste di una società desiderosa di chiasso e continuo movimento; siamo diventati incapaci dell’attesa e di sguardi curiosi, vuoti interiormente dobbiamo sempre stupirci per notare qualcosa. 

Si è perduto in molte architetture il momento di silenzio, di riflessione e di stasi dell’edificio, capitolati sotto le richieste di una società che desidera chiasso e continuo movimento; incapaci dell’attesa e di uno sguardo curioso, vuoti interiormente dobbiamo sempre stupirci per riuscire a notare qualcosa.

L’architettura, con il supporto della tecnologia, dovrebbe essere un gioco di proporzioni a volte spontanee e a volte ragionate, fatto di distanze, di luci e ombre che insieme danno vita ai materiali, creando specificità e caratterizzando un progetto. La sua arte è sempre stata riuscire a raccontare la società, rinnovandosi senza dimenticare le preesistenze, le persone e i loro luoghi.

L’architettura creava luoghi per i cittadini, una forza che oggi è però andata perduta.

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La crisi dell’organismo urbano e il limite di crescenza

Mi aggiro, cittadino osservatore, nella città asfaltata ormai luogo di espressione della volontà di una nuova ed ennesima generazione di parcheggiatori e produttori di cemento, in realtà politici forti della loro ignoranza. Esponenti di un non sapere collettivo che le loro azioni amplificano. Vedo un’epoca che scoppia di dinamismo. Non vuole saperne di pensieri, chiede soltanto azioni.

Cammino sempre più convinto che questa energia, negativa e distruttrice, provenga unicamente dal fatto che non si ha nulla da fare, interiormente. A ben pensare, però, anche esteriormente ciascuno non fa altro che ripetere per tutta la vita la stessa identica azione: entra in un ruolo sociale, identificato da un’attività professionale e così continua per tutta la vita. 

LA DECRESCITÀ PER RIDARE SPAZIO ALLA NATURA

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Nei cittadini non c’è agitazione. Sono complici della diffusione del “metro cubo edificabile”, il virus degenerativo della città e del paesaggio, il nostro intorno, terra che tace come consapevole della forza che troverà, un giorno, per superare le torture subite. Questo virus, esaurito l’intorno di cui nutrirsi, il suolo, non potrà più crescere e darà inizio ad un processo auto-distruttivo. Il successivo passaggio sarà il collasso, un momento di crollo, di abbandono, di riappropriazione, in definitiva di felicità. E sarà una festa.

Il limite di crescenza

Questo pensiero ricorrente mi ha fatto riflettere sul “limite di crescenza” (R. Musil), misterioso limite che vale per la vita organica, per cui nessun animale cresce all’infinito. Noi, in quanto esseri umani, abbiamo la stessa misteriosa caratteristica e non continuiamo a crescere all’infinito, fisicamente non subiamo variazioni apprezzabili, infatti la nostra voce non avrà mai la forza di un megafono e così i nostri piedi e le nostre dita manterranno le loro dimensioni nel tempo. In quanto società, invece, siamo incapaci di accogliere il concetto di limite di crescenza e questo è evidente in svariati ambiti e discipline, dal design all’architettura, dalle dimensioni della città fino agli oggetti di uso comune, come le automobili. Ad esempio oggi un’utilitaria ha dimensioni paragonabili e spesso superiori a quelle di un’automobile di categoria superiore di solo qualche anno fa.

Purtroppo, anche in architettura, è ormai pratica comune quella di creare qualcosa che sia sempre “più”. Più grande e più costoso del già costruito e che si distingua a tutti i costi gridando la sua presenza ai passanti.

Dietro a questa crescita illimitata c’è un evidente problema culturale del mercato. 

Stiamo vivendo un eccesso di barocchismo, seguendo i capricci di una clientela che non ha cultura ed è affascinata da forme fini a sé stesse, dove un’esuberanza di motivi porta i progettisti ad andare al di là dei rapporti proporzionali, della logica di pensiero e di produzione. L’essenziale è perduto, quell’idea di progetto che non era sinonimo di povero ma di coerenza, di intelligenza e leggerezza. In molte architetture si è perso il momento del silenzio, della riflessione e della stasi dell’edificio, capitolati sotto le richieste di una società desiderosa di chiasso e continuo movimento; siamo diventati incapaci dell’attesa e di sguardi curiosi, vuoti interiormente dobbiamo sempre stupirci per notare qualcosa. 

Si è perduto in molte architetture il momento di silenzio, di riflessione e di stasi dell’edificio, capitolati sotto le richieste di una società che desidera chiasso e continuo movimento; incapaci dell’attesa e di uno sguardo curioso, vuoti interiormente dobbiamo sempre stupirci per riuscire a notare qualcosa.

L’architettura, con il supporto della tecnologia, dovrebbe essere un gioco di proporzioni a volte spontanee e a volte ragionate, fatto di distanze, di luci e ombre che insieme danno vita ai materiali, creando specificità e caratterizzando un progetto. La sua arte è sempre stata riuscire a raccontare la società, rinnovandosi senza dimenticare le preesistenze, le persone e i loro luoghi.

L’architettura creava luoghi per i cittadini, una forza che oggi è però andata perduta.

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Un bar in pallet: tributo alla tradizione artigiana

Quando nel settembre 2013 Luca Scardulla e Federico Robbiano hanno deciso di fondare lo studio scardulla&robbiano_ArchitecturLab (llab) i due giovani si sono ispirati alle parole dell’architetto cinese Wang Shu: “Prima di essere architetto sii falegname“. È nato così non un semplice studio ma un vero e proprio laboratorio, un luogo in cui progetti di falegnameria vengono seguiti dalla fase di ideazione fino alla vera e propria realizzazione.

Fiore all’occhiello di questa architettura del “fare”, come la amano definire i due progettisti, è un locale commerciale nato dai pallet: il bar La Strega a Fidenza.

ARREDI A COSTO ZERO CON I PALLET

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Il bar in pallet: la sfida

Quello del bar La Strega è un intervento di riqualificazione volto a coniugare le esigenze funzionali dettate dalla committenza con la ricerca di una nuova qualità spaziale in un ambiente preesistente fortemente connotato da una geometria stretta e lunga. L’apparente punto debole, dato dalla conformazione planimetrica, viene trasformato nel punto di forza di un progetto che mira, attraverso la creazione di un cono visivo, ad enfatizzare la profondità dell’ambiente in cui insiste.

A tal fine una successione di nastri funzionali scandiscono lo spazio perpendicolarmente alla direzione prevalente accompagnando lo sguardo del cliente entrante verso il fondo del locale, fino alla finestra che affaccia sul cortile esterno.

I tavolini rappresentano gli elementi terminali di tali “costole” le cui doghe lignee percorrono in maniera continua pareti e soffitto discostandosene solo in specifici punti per lasciare spazio a vani luce che conferiscono ulteriore enfasi all’ambiente; i 19 mm di distanza tra una doga e l’altra (tutte di larghezza costante pari a 55 cm) fanno da supporto agli elementi di arredo, sia fissi che mobili, e donano una certa flessibilità a un progetto dominato dal rigore geometrico.

Elementi architettonici indispensabili ai fini dell’articolazione spaziale, le pareti attrezzabili acquistano così un valore anche funzionale, fondamentale per la tipologia del locale.

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Il legno dei pallet come elemento unificatore

Le tre diverse sezioni del bar (desk, stand-up e dining) vengono declinate con altrettanti linguaggi spaziali, differenti per dimensioni, funzione ed ambientazione, ma uniti da un unico filo conduttore: il legno.

L’intervento è infatti quasi interamente realizzato con il legno di recupero dei bancali, circa 70, provenienti da aziende locali: una scelta emozionale, un rifiuto dello stile industriale per sottolineare la natura artigianale dei prodotti serviti ma anche un tributo all’intero territorio, alla sua economia e alla sua sensibilità nei confronti dell’ambiente.

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Trattato in modo da conservare orgogliosamente i segni del tempo, testimonianza della natura viva del materiale, ogni elemento è stato realizzato a mano da llab, in estrema coerenza con la scelta dei progettisti di essere architetti-falegnami: dopo tutto un’opera “non si realizza con le idee, ma con le mani”. (Pablo Picasso)

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Un bar in pallet: tributo alla tradizione artigiana

Quando nel settembre 2013 Luca Scardulla e Federico Robbiano hanno deciso di fondare lo studio scardulla&robbiano_ArchitecturLab (llab) i due giovani si sono ispirati alle parole dell’architetto cinese Wang Shu: “Prima di essere architetto sii falegname“. È nato così non un semplice studio ma un vero e proprio laboratorio, un luogo in cui progetti di falegnameria vengono seguiti dalla fase di ideazione fino alla vera e propria realizzazione.

Fiore all’occhiello di questa architettura del “fare”, come la amano definire i due progettisti, è un locale commerciale nato dai pallet: il bar La Strega a Fidenza.

ARREDI A COSTO ZERO CON I PALLET

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Il bar in pallet: la sfida

Quello del bar La Strega è un intervento di riqualificazione volto a coniugare le esigenze funzionali dettate dalla committenza con la ricerca di una nuova qualità spaziale in un ambiente preesistente fortemente connotato da una geometria stretta e lunga. L’apparente punto debole, dato dalla conformazione planimetrica, viene trasformato nel punto di forza di un progetto che mira, attraverso la creazione di un cono visivo, ad enfatizzare la profondità dell’ambiente in cui insiste.

A tal fine una successione di nastri funzionali scandiscono lo spazio perpendicolarmente alla direzione prevalente accompagnando lo sguardo del cliente entrante verso il fondo del locale, fino alla finestra che affaccia sul cortile esterno.

I tavolini rappresentano gli elementi terminali di tali “costole” le cui doghe lignee percorrono in maniera continua pareti e soffitto discostandosene solo in specifici punti per lasciare spazio a vani luce che conferiscono ulteriore enfasi all’ambiente; i 19 mm di distanza tra una doga e l’altra (tutte di larghezza costante pari a 55 cm) fanno da supporto agli elementi di arredo, sia fissi che mobili, e donano una certa flessibilità a un progetto dominato dal rigore geometrico.

Elementi architettonici indispensabili ai fini dell’articolazione spaziale, le pareti attrezzabili acquistano così un valore anche funzionale, fondamentale per la tipologia del locale.

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Il legno dei pallet come elemento unificatore

Le tre diverse sezioni del bar (desk, stand-up e dining) vengono declinate con altrettanti linguaggi spaziali, differenti per dimensioni, funzione ed ambientazione, ma uniti da un unico filo conduttore: il legno.

L’intervento è infatti quasi interamente realizzato con il legno di recupero dei bancali, circa 70, provenienti da aziende locali: una scelta emozionale, un rifiuto dello stile industriale per sottolineare la natura artigianale dei prodotti serviti ma anche un tributo all’intero territorio, alla sua economia e alla sua sensibilità nei confronti dell’ambiente.

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Trattato in modo da conservare orgogliosamente i segni del tempo, testimonianza della natura viva del materiale, ogni elemento è stato realizzato a mano da llab, in estrema coerenza con la scelta dei progettisti di essere architetti-falegnami: dopo tutto un’opera “non si realizza con le idee, ma con le mani”. (Pablo Picasso)

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Un organo suonato dalle onde del mare a Zara

Fino ad oggi l’architettura ha emozionato, comunicato, rappresentato, divertito e affascinato. Oggi si può affermare che un’opera architettonica ha anche suonato. Il lungomare di Zara, in Croazia, infatti, non solo abbellisce un luogo che fino al 2005 era definito da un semplice muraglione in cemento, ma permette a passanti e turisti di ascoltare una piacevole melodia suonata dalle onde del mare.

L’idea nasce dall’estro creativo e dalla genialità dell’architetto Nikola Bašić, che ha voluto trasformare in un organo azionato dalla pressione dell’acqua marina un luogo che, dopo la ricostruzione post bellica della città, è rimasto abbandonato, proprio fino alla realizzazione dell’opera.

MUSICA DALLA PIOGGIA: L’EDIFICIO CHE SUONA QUANDO PIOVE

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L’architettura-strumento è stata battezzata “Sea Organ“, “Morske Orgulije” in lingua croata, ed è stata premiata, nel 2006, con un European Prize for Urban Space.

Sea Organ: i tubi che cantano

Il lungomare di Zara è lungo ben 70 metri e, all’interno degli ampi gradoni in marmo, sono installati 35 tubi in polietiliene di lunghezza, diametro e inclinazione diversa. In questo modo, quando le onde e il vento si infrangono contro la barriera marmorea, aria e acqua possono entrare nei tubi e generare un suono sempre diverso, dipendente non soltanto dal tipo di tubo coinvolto, ma anche dalle condizioni meteorologiche esistenti. 

Dei fori praticati lungo le alzate dei gradoni permettono al suono di uscire dal sistema e agli spettatori di godersi l’ineguagliabile spettacolo che musica, mare e paesaggio riescono ad offrire. 

L’intera opera è stata realizzata con materiali appositamente selezionati per garantire una buona qualità e diffusione del suono. Sono, inoltre, resistenti alle intemperie e alle condizioni climatiche che avrebbero potuto provocare danneggiamenti o addirittura distruzione degli stessi, soprattutto per azione della salsedine marina.

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Il lungomare di Zara: sette “Sirene” che cantano verso il mare

Proprio come le Sirene della mitologia, che incantavano i marinai con il loro dolce e soave canto, così i gradoni del Sea Organ ammaliano turisti e visitatori provenienti da tutto il mondo rivolgendo una piacevole melodia al mare croato. I sette salti di quota paralleli del Lungomare di Zara, infatti, si gettano nel mare sia fisicamente che con le loro note, direzionando la musica verso l’acqua e in direzione opposta al centro della città.

La composizione dei vari podi segue una logica per cui ad ogni salto di quota si ha un cambio di passo, cosicché la sagoma della struttura mostri dei gradoni sfalsati tra di loro. 

I primi tre filari sono i più lunghi, costituiti da sei passi che scendono fino ad arrivare ad una quota di due metri, punto di approdo delle navi da crociera. Dal quarto gradone, per tutti i successivi, l’alzata e il numero dei passi permettono alla massa marmorea di avvicinarsi lentamente al mare, di lasciarsi trascinare gradualmente in acqua dalle onde che giungono a terra spinte dalla corrente. 

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Il Sea Organ è un organo anche nella forma

La scelta della forma organizzata per sovrapposizione di gradoni non è stata dettata soltanto dalla topografia del terreno su cui l’opera è stata realizzata. I tubi inseriti all’interno dell’armatura in marmo, infatti, seguono anche nell’altezza, la forma di un vero organo. Questa scelta consente di avere i tubi di lunghezza diversa e di ottenere note differenti in base a come il mare decide di suonarle.

Seguendo tale andamento anche con il rivestimento esterno e creando delle piccole terrazze che si diradano man mano che scendono verso il mare, Nikola Bašić ha ridisegnato il waterfront di Zara e gli ha dato una nuova funzione, oltre che una nuova vita. Il muraglione in cemento è stato sostituito da gradoni che si trasformano in sedute, che invitano gente del posto e visitatori occasionali a sedersi, a concedersi qualche minuto di tranquillità e a farsi cullare da una musica eseguita da un musicista d’eccezione: la natura.

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Un organo suonato dalle onde del mare a Zara

Fino ad oggi l’architettura ha emozionato, comunicato, rappresentato, divertito e affascinato. Oggi si può affermare che un’opera architettonica ha anche suonato. Il lungomare di Zara, in Croazia, infatti, non solo abbellisce un luogo che fino al 2005 era definito da un semplice muraglione in cemento, ma permette a passanti e turisti di ascoltare una piacevole melodia suonata dalle onde del mare.

L’idea nasce dall’estro creativo e dalla genialità dell’architetto Nikola Bašić, che ha voluto trasformare in un organo azionato dalla pressione dell’acqua marina un luogo che, dopo la ricostruzione post bellica della città, è rimasto abbandonato, proprio fino alla realizzazione dell’opera.

MUSICA DALLA PIOGGIA: L’EDIFICIO CHE SUONA QUANDO PIOVE

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L’architettura-strumento è stata battezzata “Sea Organ“, “Morske Orgulije” in lingua croata, ed è stata premiata, nel 2006, con un European Prize for Urban Space.

Sea Organ: i tubi che cantano

Il lungomare di Zara è lungo ben 70 metri e, all’interno degli ampi gradoni in marmo, sono installati 35 tubi in polietiliene di lunghezza, diametro e inclinazione diversa. In questo modo, quando le onde e il vento si infrangono contro la barriera marmorea, aria e acqua possono entrare nei tubi e generare un suono sempre diverso, dipendente non soltanto dal tipo di tubo coinvolto, ma anche dalle condizioni meteorologiche esistenti. 

Dei fori praticati lungo le alzate dei gradoni permettono al suono di uscire dal sistema e agli spettatori di godersi l’ineguagliabile spettacolo che musica, mare e paesaggio riescono ad offrire. 

L’intera opera è stata realizzata con materiali appositamente selezionati per garantire una buona qualità e diffusione del suono. Sono, inoltre, resistenti alle intemperie e alle condizioni climatiche che avrebbero potuto provocare danneggiamenti o addirittura distruzione degli stessi, soprattutto per azione della salsedine marina.

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Il lungomare di Zara: sette “Sirene” che cantano verso il mare

Proprio come le Sirene della mitologia, che incantavano i marinai con il loro dolce e soave canto, così i gradoni del Sea Organ ammaliano turisti e visitatori provenienti da tutto il mondo rivolgendo una piacevole melodia al mare croato. I sette salti di quota paralleli del Lungomare di Zara, infatti, si gettano nel mare sia fisicamente che con le loro note, direzionando la musica verso l’acqua e in direzione opposta al centro della città.

La composizione dei vari podi segue una logica per cui ad ogni salto di quota si ha un cambio di passo, cosicché la sagoma della struttura mostri dei gradoni sfalsati tra di loro. 

I primi tre filari sono i più lunghi, costituiti da sei passi che scendono fino ad arrivare ad una quota di due metri, punto di approdo delle navi da crociera. Dal quarto gradone, per tutti i successivi, l’alzata e il numero dei passi permettono alla massa marmorea di avvicinarsi lentamente al mare, di lasciarsi trascinare gradualmente in acqua dalle onde che giungono a terra spinte dalla corrente. 

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Il Sea Organ è un organo anche nella forma

La scelta della forma organizzata per sovrapposizione di gradoni non è stata dettata soltanto dalla topografia del terreno su cui l’opera è stata realizzata. I tubi inseriti all’interno dell’armatura in marmo, infatti, seguono anche nell’altezza, la forma di un vero organo. Questa scelta consente di avere i tubi di lunghezza diversa e di ottenere note differenti in base a come il mare decide di suonarle.

Seguendo tale andamento anche con il rivestimento esterno e creando delle piccole terrazze che si diradano man mano che scendono verso il mare, Nikola Bašić ha ridisegnato il waterfront di Zara e gli ha dato una nuova funzione, oltre che una nuova vita. Il muraglione in cemento è stato sostituito da gradoni che si trasformano in sedute, che invitano gente del posto e visitatori occasionali a sedersi, a concedersi qualche minuto di tranquillità e a farsi cullare da una musica eseguita da un musicista d’eccezione: la natura.

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È cinese il primo tram a idrogeno del mondo

Nelle metropoli cinesi, soffocate dallo smog e dalla nuvola di polveri sottili che quotidianamente si eleva verso il cielo, pensare ad un mezzo di spostamento “pulito” sembrava più che altro affidarsi a un sogno. E invece è proprio Made in China il primo tram a idrogeno a impatto zero.

Dallo scorso marzo il tram “pulito” corre sui binari di Tsingtao, una metropoli cinese che conta ben 3 milioni di abitanti, rivolta verso Corea e Giappone.

Appena si vede il “tram che non inquina” un italiano tenderà a figurarsi nella mente una delle Frecce di Trenitalia. In effetti l’aspetto è proprio quello di un treno ad alta velocità, con un profilo morbido e proteso in avanti, in grado di tagliare l’aria come la lama affilata di un coltello, vincendo l’attrito che si genera. È arancione, modernissimo e velocissimo.

MOBILITÀ ELETTRICA: IL FUTURO È VICINO?

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Il tram a idrogeno: veloce e non inquina

Il tram arancione può viaggiare ad una velocità di 70 chilometri orari, mantenendo ritmi abbastanza sostenuti per un tram cittadino. A realizzare l’abitacolo è stata l’azienda Sifang, appartenente alla China South Rail Corporation. All’interno sono stati realizzati 60 posti a sedere e 320 in piedi, così da garantire un trasporto comodo, agevole e veloce a ben 380 passeggeri. 

Oltre alla rapidità e al design innovativo, ci sono altre caratteristiche che rendono il progetto particolarmente interessante dal punto di vista tecnologico ed economico. 

Il tram, infatti, risulta essere interamente sostenibile sia per il fatto che il ricorso all’idrogeno lo rende un mezzo di trasporto totalmente a impatto zero, sia perchè consente di ridurre gli sprechi economici legati al rifornimento di carburante. Il treno consuma pochissimo, tanto che, con un pieno, è in grado di coprire una distanza di circa 100 chilometri, corrispondenti tre viaggi consecutivi di andata e uno di ritorno tra i capolinea.

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Investimenti per il tram a idrogeno

Nonostante le titubanze iniziali per un paese che ormai fatica a credere esista qualcosa di veramente pulito, il Governo cinese sembra essersi convinto delle potenzialità insite nel progetto del tram a idrogeno. A questo punto, tuttavia, subentra un problema di primaria importanza: la mancanza di binari. In tutti i 9.597.000 chilometri quadri di superficie cinese, infatti, sono soltanto 83 i chilometri coperti da binari predisposti al passaggio di questo tipo di veicoli e si trovano esclusivamente in sette città.

Sarà stato proprio questo dato a spingere gli organi statali a stanziare quasi 30 milioni di euro per sostenere gli spostamenti attraverso l’idrogeno. L’obiettivo che il Governo della Cina si è posto è quello di incrementare il settore e di portare la lunghezza dei binari deputati agli spostamenti con tram a idrogeno a 1200 chilometri.

Sicuramente la somma è molto ingente, ma i Cinesi sembrano rispondere bene alla proposta e le imprese che si sono impegnate nella produzione di questi mezzi di trasporto sono particolarmente fiduciose riguardo alla buona riuscita dell’iniziativa.

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L’ideatore del tram a idrogeno: parla l’ingegnere Liang Jianying

A realizzare il progetto del tram “del futuro” è stato un gruppo di ingegneri della Sifang capitanato da Liang Jianying, che ha descritto il lavoro condotto dai professionisti lungo e meticoloso. In due anni di studio e di sperimentazione, continua l’ingegnere, sono stati fondamentali i supporti ricevuti dagli enti e istituti di ricerca locali.

Tra le prime città a vedere un tram a idrogeno sui binari urbani c’è stata Foshnan, l’anno scorso. Di fronte a questa proposta innovativa si è proceduto immediatamente all’incremento della linea ferroviaria e i lavori dovrebbero concludersi entro fine anno. L’investimento di Foshan ammonta a 72 milioni di dollari in favore della Sifang. Da questa collaborazione è nata una vera e propria partnership con l’obiettivo comune di fondare un centro di ricerca sull’idrogeno applicato ai mezzi di trasporto. 

Sicuramente il progetto, a prescindere dalle opere pubbliche che si realizzeranno o meno, presenta un forte impatto innovativo, apre le porte ad una nuova fonte di energia per spostarsi da un posto all’altro e può costituire una strada più che valida per salvaguardare la salute della gente cinese, messa costantemente a dura prova da tutto quello che la modernità è in grado di liberare nell’atmosfera.

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È cinese il primo tram a idrogeno del mondo

Nelle metropoli cinesi, soffocate dallo smog e dalla nuvola di polveri sottili che quotidianamente si eleva verso il cielo, pensare ad un mezzo di spostamento “pulito” sembrava più che altro affidarsi a un sogno. E invece è proprio Made in China il primo tram a idrogeno a impatto zero.

Dallo scorso marzo il tram “pulito” corre sui binari di Tsingtao, una metropoli cinese che conta ben 3 milioni di abitanti, rivolta verso Corea e Giappone.

Appena si vede il “tram che non inquina” un italiano tenderà a figurarsi nella mente una delle Frecce di Trenitalia. In effetti l’aspetto è proprio quello di un treno ad alta velocità, con un profilo morbido e proteso in avanti, in grado di tagliare l’aria come la lama affilata di un coltello, vincendo l’attrito che si genera. È arancione, modernissimo e velocissimo.

MOBILITÀ ELETTRICA: IL FUTURO È VICINO?

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Il tram a idrogeno: veloce e non inquina

Il tram arancione può viaggiare ad una velocità di 70 chilometri orari, mantenendo ritmi abbastanza sostenuti per un tram cittadino. A realizzare l’abitacolo è stata l’azienda Sifang, appartenente alla China South Rail Corporation. All’interno sono stati realizzati 60 posti a sedere e 320 in piedi, così da garantire un trasporto comodo, agevole e veloce a ben 380 passeggeri. 

Oltre alla rapidità e al design innovativo, ci sono altre caratteristiche che rendono il progetto particolarmente interessante dal punto di vista tecnologico ed economico. 

Il tram, infatti, risulta essere interamente sostenibile sia per il fatto che il ricorso all’idrogeno lo rende un mezzo di trasporto totalmente a impatto zero, sia perchè consente di ridurre gli sprechi economici legati al rifornimento di carburante. Il treno consuma pochissimo, tanto che, con un pieno, è in grado di coprire una distanza di circa 100 chilometri, corrispondenti tre viaggi consecutivi di andata e uno di ritorno tra i capolinea.

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Investimenti per il tram a idrogeno

Nonostante le titubanze iniziali per un paese che ormai fatica a credere esista qualcosa di veramente pulito, il Governo cinese sembra essersi convinto delle potenzialità insite nel progetto del tram a idrogeno. A questo punto, tuttavia, subentra un problema di primaria importanza: la mancanza di binari. In tutti i 9.597.000 chilometri quadri di superficie cinese, infatti, sono soltanto 83 i chilometri coperti da binari predisposti al passaggio di questo tipo di veicoli e si trovano esclusivamente in sette città.

Sarà stato proprio questo dato a spingere gli organi statali a stanziare quasi 30 milioni di euro per sostenere gli spostamenti attraverso l’idrogeno. L’obiettivo che il Governo della Cina si è posto è quello di incrementare il settore e di portare la lunghezza dei binari deputati agli spostamenti con tram a idrogeno a 1200 chilometri.

Sicuramente la somma è molto ingente, ma i Cinesi sembrano rispondere bene alla proposta e le imprese che si sono impegnate nella produzione di questi mezzi di trasporto sono particolarmente fiduciose riguardo alla buona riuscita dell’iniziativa.

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L’ideatore del tram a idrogeno: parla l’ingegnere Liang Jianying

A realizzare il progetto del tram “del futuro” è stato un gruppo di ingegneri della Sifang capitanato da Liang Jianying, che ha descritto il lavoro condotto dai professionisti lungo e meticoloso. In due anni di studio e di sperimentazione, continua l’ingegnere, sono stati fondamentali i supporti ricevuti dagli enti e istituti di ricerca locali.

Tra le prime città a vedere un tram a idrogeno sui binari urbani c’è stata Foshnan, l’anno scorso. Di fronte a questa proposta innovativa si è proceduto immediatamente all’incremento della linea ferroviaria e i lavori dovrebbero concludersi entro fine anno. L’investimento di Foshan ammonta a 72 milioni di dollari in favore della Sifang. Da questa collaborazione è nata una vera e propria partnership con l’obiettivo comune di fondare un centro di ricerca sull’idrogeno applicato ai mezzi di trasporto. 

Sicuramente il progetto, a prescindere dalle opere pubbliche che si realizzeranno o meno, presenta un forte impatto innovativo, apre le porte ad una nuova fonte di energia per spostarsi da un posto all’altro e può costituire una strada più che valida per salvaguardare la salute della gente cinese, messa costantemente a dura prova da tutto quello che la modernità è in grado di liberare nell’atmosfera.

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Rifugi modulari nella natura come vecchie abitazioni di pescatori

In Danimarca, a sud dell’arcipelago Fyn, è possibile godersi a pieno la natura grazie a cinquanta costruzioni in legno esclusivamente realizzate per una vita all’aria aperta ed ispirati alle abitazioni un tempo dei pescatori. 

I rifugi sono collocati in 19 punti bene precisi: ogni posizione è accuratamente studiata in base ad un attento studio del paesaggio e delle sue prospettive. Questa disposizione, diffusa nei quattro comuni di Langeland, Ærø, Svendborg e Faaborg-Midtfyn, è stata garantita da un patto tra l’Agenzia del territorio della Danimarca ed il Ministero dell’Ambiente, in cui viene meno lo stato di area protetta delle suddette aree costiere. 

CASA NA AREIA: AIRES MATHEUS RECUPERA UN VILLAGGIO DI PESCATORI

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Nel progetto di LUMO Architects, che prende il nome di Shelters by he Sea, ogni rifugio è stato accuratamente selezionato e adattato all’ambiente circostante, in modo da costituire un landmark che, tuttavia, non interferisca con la qualità paesaggistica del sito. I rifugi sono situati molto vicino alla costa al fine di accogliere i vari visitatori provenienti dal mare.

I punti di riferimento, adattabili ad ogni esigenza, divengono un sostegno delle attività durante tutto l’anno, contribuendo a incanalare il traffico e direzionarlo oltre le aree naturalmente vulnerabili. Allo stesso tempo, essi funzionano anche come base e punti di ritrovo per canoisti, pescatori, subacquei e surfisti.

Ogni sito consiste in un riparo individuale o in un piccolo gruppo di vari rifugi, che da soli o in combinazione rafforzano la vicinanza alla vita all’aria aperta ed il legame con l’ambiente. Il concetto architettonico generale è stato quello di creare cinque differenti tipologie di edificio, sia dal punto di vista dimensionale che funzionale, che mantengano al tempo stesso una chiara relazione continua e spaziale tra loro.

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Fonte d’ispirazione per il design e l’architettura sono i vecchi capanni dei pescatori, da cui sono stati anche ispirati i nomi: Pescatrice, con i suoi tre livelli e piattaforma integrata di bird-watching; Anguilla, un riparo per sei-sette persone che funge anche da spazio pic-nic per le classi scolastiche; Lombo, un rifugio per 3-5 persone dotata di soggiorno e spazio sauna; Platessa una suite per due ed, infine, Eelpout che funziona come toilette.

Le varie scelte tipologiche sono state ideate per essere combinate tra di loro e per completarsi l’una con l’altra in diversi modi, creando così molteplici possibilità compositive e di utilizzo dei luoghi, prediligendo comunque lo spazio per una vita attiva all’aria aperta. I rifugi appaiono come corpi asimmetrici con linee angolate e sono coperti con assi di legno di grandi dimensioni e trattate con olio di catrame nero pigmentato. Le aperture, a forma di tondo, garantiscono il rapporto con la natura circostante ed il cielo.

Il profilo angolare e tattile permette una ricca varietà nella progettazione del rifugio, aggiungendo flessibilità funzionale e facilitano le diverse esigenze dei fruitori dell’area. 

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Rifugi modulari nella natura come vecchie abitazioni di pescatori

In Danimarca, a sud dell’arcipelago Fyn, è possibile godersi a pieno la natura grazie a cinquanta costruzioni in legno esclusivamente realizzate per una vita all’aria aperta ed ispirati alle abitazioni un tempo dei pescatori. 

I rifugi sono collocati in 19 punti bene precisi: ogni posizione è accuratamente studiata in base ad un attento studio del paesaggio e delle sue prospettive. Questa disposizione, diffusa nei quattro comuni di Langeland, Ærø, Svendborg e Faaborg-Midtfyn, è stata garantita da un patto tra l’Agenzia del territorio della Danimarca ed il Ministero dell’Ambiente, in cui viene meno lo stato di area protetta delle suddette aree costiere. 

CASA NA AREIA: AIRES MATHEUS RECUPERA UN VILLAGGIO DI PESCATORI

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Nel progetto di LUMO Architects, che prende il nome di Shelters by he Sea, ogni rifugio è stato accuratamente selezionato e adattato all’ambiente circostante, in modo da costituire un landmark che, tuttavia, non interferisca con la qualità paesaggistica del sito. I rifugi sono situati molto vicino alla costa al fine di accogliere i vari visitatori provenienti dal mare.

I punti di riferimento, adattabili ad ogni esigenza, divengono un sostegno delle attività durante tutto l’anno, contribuendo a incanalare il traffico e direzionarlo oltre le aree naturalmente vulnerabili. Allo stesso tempo, essi funzionano anche come base e punti di ritrovo per canoisti, pescatori, subacquei e surfisti.

Ogni sito consiste in un riparo individuale o in un piccolo gruppo di vari rifugi, che da soli o in combinazione rafforzano la vicinanza alla vita all’aria aperta ed il legame con l’ambiente. Il concetto architettonico generale è stato quello di creare cinque differenti tipologie di edificio, sia dal punto di vista dimensionale che funzionale, che mantengano al tempo stesso una chiara relazione continua e spaziale tra loro.

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Fonte d’ispirazione per il design e l’architettura sono i vecchi capanni dei pescatori, da cui sono stati anche ispirati i nomi: Pescatrice, con i suoi tre livelli e piattaforma integrata di bird-watching; Anguilla, un riparo per sei-sette persone che funge anche da spazio pic-nic per le classi scolastiche; Lombo, un rifugio per 3-5 persone dotata di soggiorno e spazio sauna; Platessa una suite per due ed, infine, Eelpout che funziona come toilette.

Le varie scelte tipologiche sono state ideate per essere combinate tra di loro e per completarsi l’una con l’altra in diversi modi, creando così molteplici possibilità compositive e di utilizzo dei luoghi, prediligendo comunque lo spazio per una vita attiva all’aria aperta. I rifugi appaiono come corpi asimmetrici con linee angolate e sono coperti con assi di legno di grandi dimensioni e trattate con olio di catrame nero pigmentato. Le aperture, a forma di tondo, garantiscono il rapporto con la natura circostante ed il cielo.

Il profilo angolare e tattile permette una ricca varietà nella progettazione del rifugio, aggiungendo flessibilità funzionale e facilitano le diverse esigenze dei fruitori dell’area. 

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Concorso “Ecoidee”: lunga vita ai rifiuti!

Quando sostenibilità e creatività si incontrano non può che nascere qualcosa di speciale. Lo sanno bene gli organizzatori del concorso “Ecoidee”, che premia i talenti creativi in grado di creare pezzi di arredamento a partire dal riciclo di oggetti di scarto.

Ad organizzare il concorso è Spazio Artèt_eco, un brand che nasce per diventare un punto di incontro tra designer ed aziende, professionisti ed istituzioni avvicinandoli attraverso la creatività, l’imprenditorialità, l’arte e l’economia. Spazio Artèt_eco è stato ideato dall’Associazione culturale Arcarte Lab Creative in collaborazione con Artèteco e con il sostegno di Fondazione CON IL SUD, il cui obiettivo primario è di formare giovani, appartenenti a fasce deboli e svantaggiate, sui temi legati alla produzione di elementi di arredo di design con l’apporto di artigiani e creativi e con l’utilizzo di materiali di scarto.

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Il contest Ecoidee, organizzato da Spazio Artèt_eco è stato definito “un concorso di idee contro un concorso di colpa” perché gli oggetti che ne deriveranno non avranno contribuito ad aumentare i rifiuti, anzi avranno aiutato a sensibilizzare alla loro riduzione.

Saranno premiati i complementi di arredo e gli accessori per la casa più originali e creativi, quelli che lascino meglio trasparire il messaggio di cui sono portatori: è importante riciclare, riutilizzare e restituire una nuova vita agli oggetti di scarto. I progetti dovranno essere funzionali e versatili, di semplice esecuzione e realizzabili a basso costo, in serie.

Nel video, un esempio di riciclo creativo a partire da un contenitore di birra di nuova generazione ed una breve intervista al Prof. Riccardo Dalisi, architetto, designer e artista, al cui nel 2014 è stato assegnato il Compasso D’Oro alla carriera.

{youtube.com}IN6lOcwypmU{/youtube}

Partecipazione e premi

La partecipazione al concorso è gratuita e non ristretta ai professionisti del settore ma aperta a ogni appassionato.

Una giuria tecnica interna, composta da architetti e docenti universitari, selezionerà entro il 15 febbraio 2016 i lavori più interessanti dal punto di vista di originalità, innovazione e tecnica.  

Con i progettisti dei lavori selezionati verranno stipulati contratti di royalties e gli oggetti considerati realizzabili verranno messi in produzione con il marchio “Spazio Artét_eco” e presentati nel 2016 ad almeno una fiera internazionale. (Salone del Mobile – Homi).

Tutti i finalisti, verranno menzionati in un comunicato stampa che sarà inoltrato alle più importanti riviste internazionali di architettura e design, a giornalisti e a molteplici canali informativi.

Per partecipare è necessario produrre 2 tavole A3 con viste quotate del modello (un’assonometria e una tavola illustrativa con render o vista prospettica) e fornire una descrizione del progetto che includa materiali e colori proposti.

Per presentare gli elaborati occorre iscriversi al sito www.arteteco.it ed inviare le tavole all’email concorsi@arteteco.it entro la chiusura del bando, prevista per il 23 Gennaio 2016.

Per saperne di più e scaricare il bando visitare la pagina Concorsi sul sito Arteteco. 

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Concorso “Ecoidee”: lunga vita ai rifiuti!

Quando sostenibilità e creatività si incontrano non può che nascere qualcosa di speciale. Lo sanno bene gli organizzatori del concorso “Ecoidee”, che premia i talenti creativi in grado di creare pezzi di arredamento a partire dal riciclo di oggetti di scarto.

Ad organizzare il concorso è Spazio Artèt_eco, un brand che nasce per diventare un punto di incontro tra designer ed aziende, professionisti ed istituzioni avvicinandoli attraverso la creatività, l’imprenditorialità, l’arte e l’economia. Spazio Artèt_eco è stato ideato dall’Associazione culturale Arcarte Lab Creative in collaborazione con Artèteco e con il sostegno di Fondazione CON IL SUD, il cui obiettivo primario è di formare giovani, appartenenti a fasce deboli e svantaggiate, sui temi legati alla produzione di elementi di arredo di design con l’apporto di artigiani e creativi e con l’utilizzo di materiali di scarto.

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Il contest Ecoidee, organizzato da Spazio Artèt_eco è stato definito “un concorso di idee contro un concorso di colpa” perché gli oggetti che ne deriveranno non avranno contribuito ad aumentare i rifiuti, anzi avranno aiutato a sensibilizzare alla loro riduzione.

Saranno premiati i complementi di arredo e gli accessori per la casa più originali e creativi, quelli che lascino meglio trasparire il messaggio di cui sono portatori: è importante riciclare, riutilizzare e restituire una nuova vita agli oggetti di scarto. I progetti dovranno essere funzionali e versatili, di semplice esecuzione e realizzabili a basso costo, in serie.

Nel video, un esempio di riciclo creativo a partire da un contenitore di birra di nuova generazione ed una breve intervista al Prof. Riccardo Dalisi, architetto, designer e artista, al cui nel 2014 è stato assegnato il Compasso D’Oro alla carriera.

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Partecipazione e premi

La partecipazione al concorso è gratuita e non ristretta ai professionisti del settore ma aperta a ogni appassionato.

Una giuria tecnica interna, composta da architetti e docenti universitari, selezionerà entro il 15 febbraio 2016 i lavori più interessanti dal punto di vista di originalità, innovazione e tecnica.  

Con i progettisti dei lavori selezionati verranno stipulati contratti di royalties e gli oggetti considerati realizzabili verranno messi in produzione con il marchio “Spazio Artét_eco” e presentati nel 2016 ad almeno una fiera internazionale. (Salone del Mobile – Homi).

Tutti i finalisti, verranno menzionati in un comunicato stampa che sarà inoltrato alle più importanti riviste internazionali di architettura e design, a giornalisti e a molteplici canali informativi.

Per partecipare è necessario produrre 2 tavole A3 con viste quotate del modello (un’assonometria e una tavola illustrativa con render o vista prospettica) e fornire una descrizione del progetto che includa materiali e colori proposti.

Per presentare gli elaborati occorre iscriversi al sito www.arteteco.it ed inviare le tavole all’email concorsi@arteteco.it entro la chiusura del bando, prevista per il 23 Gennaio 2016.

Per saperne di più e scaricare il bando visitare la pagina Concorsi sul sito Arteteco. 

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The River: la copertura sinuosa è il simbolo del progetto

Un tempo fattoria, poi allevamento equestre, Grace Farms a New Canaan nel Connecticut è oggi un vero e proprio habitat naturale di 80 acri con grandi prati aperti, numerose piante ed alberature, boschi, zone umide, stagni ed oltre 16 diverse specie di anfibi e rettili. All’interno della riserva naturale sorge The River di SANAA, un luogo di servizi pubblici, in cui la natura, l’arte e la comunità possono ritrovarsi e dar vita ad esperienze creative e rilassanti, che possono essere una semplice sosta alla caffetteria o un corso di arte per famiglie, così come una serie di eventi e di attività culturali a contatto con la natura.

UN PARCO GIOCHI SUL TETTO DELLA BIBLIOTECA

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The River: l’edificio di Sanaa

All’interno di questo polmone verde si trova il The River, progettato dallo studio giapponese SANAA, un edificio minimalista, leggero, che ben si integra nel paesaggio fondendosi con l’orografia del territorio ed insinuandosi come un fiume all’interno dell’area naturale (non casuale la scelta del nome: river, in inglese, vuol dire fiume).

L’edificio, dalle forme sinuose, ricorda un altro progetto di Seijima e Nishizawa ovvero il Serpentine Pavilion di Londra.  È caratterizzato da un design minimalista tipicamente giapponese, dai colori neutri e chiari come il bianco o il legno di rovere che riveste pavimenti ed arredi, si compone principalmente di pochi materiali: vetro, cemento, acciaio e legno, che si plasmano insieme generando uno spazio fluido ed accogliente.

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La copertura è il vero segno forte dell’intervento, con le sue curve richiama l’andamento di un fiume che scorre all’interno del parco seguendo il pendio e diventando un collegamento tra le diverse aree ed attività al coperto e le zone all’aperto. Diventa perciò un elemento continuo, fluido, ma sotto di essa si alternano passaggi coperti, che fungono quindi da filtro tra le aree a verde, e le diverse funzioni ospitate dal The river: un anfiteatro di circa 2000mq, uno spazio per la discussione e gli uffici della fondazione, spazi comuni come bar, ristorante, una sala conferenze interrata, una biblioteca, una palestra ed un padiglione polivalente per le attività multidisciplinari.  L’elemento centrale del progetto è dunque la copertura composta prevalentemente in legno, con travi lamellari di 30 metri che poggiano su pilastri di acciaio di circa 13 cm di diametro, in contrapposizione vi sono le chiusure verticali totalmente trasparenti e realizzate con grandi lastre di vetro curvo.

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Così mentre la copertura, che segna il territorio, sembra galleggiare ed essere sospesa per aria, il resto dell’edificio scompare sotto di essa, lasciando libera la visuale da una parta all’altra del parco e tra un’attività e l’altra. Non interrompe la continuità, bensì la favorisce e permette una perfetta connessione tra le aree a verde e le aree attrezzate.  La natura avvolge perciò gli spazi, ed è visibile da tutte le stanze, è un aspetto importante che ben rispecchia l’anima della vita a Grace Farms: un luogo di contatto con la natura e tra le persone della comunità, in cui è possibile giocare, fare sport o attività ricreative e coltivare gli orti comuni.

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Certificazione LEED ed accorgimenti bioclimatici

L’edificio vanta inoltre alcuni accorgimenti bioclimatici per il risparmio energetico che gli varrà la certificazione LEED (Leadership in Energy and Environmental Design). Oltre al sistema geotermico integrato composto da oltre 55 pozzi geotermici a 150 metri di profondità, l’intero edificio è progettato secondo criteri ecosostenibili per il minor consumo di energia e il riuso delle acque piovane. Il progetto del verde e del paesaggio è nato dalla collaborazione tra SANAA e lo studio OLIN che da sempre si occupa di architettura del paesaggio.

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