Searching for sustainability street: un viaggio alla ricerca della sostenibilità

Che cosa accade quando un trentunenne peruviano incontra una ventottenne belga? Un viaggio all’insegna della sostenibilità!

No, non è uno scherzo; quella che segue è una storia vera, un progetto concreto di un viaggio lungo un anno, un documentario, attraverso 20 paesi e più di 20 mila chilometri, alla ricerca di uno stile di vita sostenibile: “Searching for Sustainability Street. 21.500 km. 20 countries. 1 documentary.”

In copertina: il percorso del viaggio sulla “Sustainability street”.

Viaggiare sostenibile: le regole delle 3E del turismo slow

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Searching for sustainability streets: gli ideatori del viaggio

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I protagonisti sono Bruno Crepa Moreno e Lana Meeusen.

Bruno, che si definisce un ottimista, in seguito ai suoi studi di cinematografia che lo hanno portato a vivere in Perù, in Italia, in Russia, in Spagna ed in Belgio, si è reso conto che la società moderna, a dispetto delle differenze culturali, è concentrata sul raggiungimento di un unico scopo: il successo economico, a qualunque costo. Questa consapevolezza ha acceso il suo interesse per la sostenibilità da cui è scaturito il progetto; il desiderio di cambiare le cose e la sua esperienza nella produzione e nella regia hanno fatto il resto.

Il destino di Lana, che parla di sé come di una sognatrice, sembra segnato fin da bambina, quando insieme ad un amico ha realizzato il suo primo orto, tra tentativi riusciti e fallimenti.

Nel corso degli anni il suo interesse per la sostenibilità è cresciuto con lei e l’orto si è presto trasformato in un progetto di permacultura in Thailandia. Dopo una tesi sul confronto tra agricoltura industriale e colture a piccola scala, Lana ha realizzato l’importanza di uno stile di vita davvero sostenibile e per trovare una soluzione alle molte domande a cui ancora non sa dare risposta ha deciso di intraprendere questo viaggio, con un’unica certezza: il suo posto non è “la giungla urbana occidentale” lavorando dalle 9 alle 17. 

caption: Casa Maty in Spagna, sede di un’associazione che offre l’opportunità di assaporare uno stile di vita ecologico offrendo pasti salutari e mettendo a disposizione terreni in cui coltivare verdure biologiche. Sarà una delle prime tappe del viaggio.

Gli obiettivi del viaggio documentario

Bruno e Lana si sono dati un anno di tempo, a decorrere da Maggio 2016, un itinerario ben preciso, lungo 21.500 km, che parte dalla Spagna e attraversa l’Europa per arrivare fino al sud- est asiatico, dopo aver attraversato 20 paesi. La regola del viaggio è una: effettuare la loro avventura via terra in modo da ridurre al minimo le emissioni.

Nel corso del viaggio lungo la “sustainable street” realizzeranno un documentario su comportamenti, iniziative e misure adottate da differenti persone nel mondo per vivere rispettando l’ambiente; tali forme di sostenibilità saranno analizzate dal punto di vista ecologico ma anche sociale ed economico, in ambienti sia urbani che rurali e con diversi gradi di coinvolgimento: comunità internazionali, progetti di quartiere, ONG, giardini comunali, iniziative individuali.

caption: A Casa Maty alcuni volontari lavorano al loro orto biologico

Lo scopo del documentario, patrocinato dal celebre regista e produttore televisivo belga Nic Balthazar, è quello di ricercare un nuovo modo di vivere e condividerlo con il maggiore numero di persone possibile ma soprattutto…ispirare il maggior numero di persone possibile!

Vivete lentamente. Siate consapevoli. Siate critici.” esorta a tal proposito Lana dalle pagine del loro blog o, per meglio dire, del loro diario di viaggio.

La società infatti è ormai governata dalla logica del volere tutto e subito senza però fermarsi a riflettere e a domandarsi a quale costo stiamo ottenendo tutto ciò. Viviamo in un mondo in cui le persone sono ancora sfruttate, il nostro cibo è pieno di agenti chimici, il clima sta cambiando e gli effetti che lo sviluppo sconsiderato ha sull’ambiente non sono più un tabù.

Molte persone sono consapevoli che sia necessario cambiare il proprio modo di vivere per consegnare un mondo migliore alle future generazioni, ma bisogna essere anche coscienti del fatto che il nostro pianeta e le specie che lo abitano “hanno una data di scadenza” ed è giunto il momento di agire concretamente.

Bisogna perciò tenere a mente una fondamentale verità: il momento più importante delle nostre vite è adesso “perché è quello che stiamo facendo oggi che definisce quello che diventeremo domani e quello che diventeremo domani determinerà sempre la qualità e la direzione delle nostre vite”. (Hal Elrod)

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La contabilizzazione e termoregolazione del calore negli edifici: responsabilità, scadenze e sanzioni.

Con l’entrata in vigore del D.L 4 luglio 2014, n. 102  “Attuazione della direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica”, i condomìni e gli edifici polifunzionali, dotati di un impianto di condizionamento dell’aria centralizzato, o rifornito da una rete di teleriscaldamento, sono tenuti ad installare entro il 31 dicembre del 2016 sistemi di contabilizzazione, di termoregolazione individuali per misurare l’effettivo consumo e al contempo dovranno adottare il criterio della ripartizione dei costi in base alla norma UNI 10200/2015. In questo articolo, il secondo di una serie di quattro, vediamo brevemente i soggetti responsabili, le scadenze per l’attuazione del Decreto e le eventuali sanzioni.

SISTEMI DI CONTABILIZZAZIONE E TERMOREGOLAZIONE PER GLI IMPIANTI

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Il quadro normativo dalla L.10/91

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Il concetto di contabilizzazione del calore, ovvero la misurazione dei consumi per il riscaldamento, il raffreddamento e dell’acqua calda per ciascuna unità immobiliare, viene introdotto per la prima volta con la L. 10 del 1991, già all’avanguardia all’epoca nella UE.

All’art. 26 del comma 5, la L 10/91 recitava: “Per le innovazioni relative all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per la conseguente ripartizione degli oneri di riscaldamento in base al consumo, effettivamente registrato, l’assemblea di condominio decide a maggioranza, in deroga agli artt. 1120 e 1136 del Codice civile”.

Al comma 6, dello stesso articolo la L 10/91 recitava: “Per gli edifici di nuova costruzione, la cui concessione edilizia sia rilasciata dopo la data di entrata in vigore della presente legge, gli impianti di riscaldamento devono essere progettati e realizzati in modo tale da consentire l’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore per ogni unità immobiliare”. Insomma, la legge all’avanguardia prevedeva già l’adozione di sistemi di termoregolazione di contabilizzazione del calore sia per gli edifici esistenti che per quelli di nuova costruzione, ma senza privilegiare alcun tipo di apparecchiatura.

La L.10/91 è tutt’ora la principale fonte di riferimento, in termini gerarchici, rispetto alla serie di decreti che si sono susseguiti dal 1991 al 2014, i quali passeremo brevemente in rassegna.
Il D.P.R. 412/1993 introduce il rispetto dell’orario di accensione dell’impianto centralizzato mediante un sistema di contabilizzazione del calore, il quale diventa obbligatorio con il D.P.R. 551/1999. Il DPR 59 del 2 aprile del 2009 (art.4) introduce i seguenti concetti: adozione di contabilizzazione nel caso di mera sostituzione del generatore; obbligo di contabilizzazione in caso di ristrutturazione o d’installazione dell’impianto termico; mantenimento d’impianto centralizzato sopra alle 4 unità abitative e l’errore massimo di misura consentito dei contabilizzatori (inferiore al 5%). Il D.P.R. 59/2009 introduce l’obbligo di contabilizzazione del calore per impianti con distribuzione non equilibrata. 

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Infine, con il recente D.L. 102/2014  -dopo un periodo di politiche a favore degli impianti termoautonomi- si introduce un’alternativa più ecosostenibile nella gestione dei consumi, ovvero rendere possibile il mantenimento dei vantaggi di un impianto centralizzato e contemporaneamente la libertà di scegliere le temperature, nonché gli orari che più soddisfano le esigenze del singolo utente come avviene in un impianto termoautonomo.

Il criterio di ripartizione dei consumi

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La UNI 10200 -introdotta nel 2005, cogente con l’art. 9 del DLgs 102/2014- a giugno del 2015 sospende alcune parti dell’edizione del 2013 che avevano generato problemi interpretativi (in relazione all’applicazione della UNI EN 834 ) ed esclusione dei ripartitori aventi il fattore K (valutazione globale) non programmabile al momento dell’installazione, e diventa così il documento tecnico normativo di riferimento per l’equa ripartizione delle spese di climatizzazione invernale, di acqua calda sanitaria (ACS) in edifici condominali, a cui si aggiungono inevitabilmente anche quelle per il servizio di gestione della contabilizzazione.
Il criterio di calcolo però non contempla le spese di manutenzione straordinaria. Inoltre, la norma distingue i consumi delle singole unità immobiliari di energia termica totale in due tipi: volontari (consumo reale di combustibile fossile e di energia elettrica per ciascuna utenza) misurati mediante contatori o ripartitori di calore e involontari (dovuti alle perdite di rete e alle dispersioni dello stabile). Inoltre, ai fini del calcolo della spesa totale, il D.L. distingue i seguenti tre casi di impianti:

  1. provvisti di contabilizzazione del calore (diretta o indiretta) e di termoregolazione;
  2. provvisti esclusivamente di termoregolazione (senza contabilizzazione);
  3. sprovvisti di contabilizzazione del calore e di termoregolazione.

Vediamo brevemente le novità della nuova edizione della UNI 10200:

1) è stata cancellata la prima frase del terzo capoverso del punto 5.1.3: “I dispositivi utilizzati in caso di contabilizzazione indiretta, nella fattispecie i ripartitori, devono essere programmati in funzione delle caratteristiche e della potenza termica dei corpi scaldanti su cui vengono installati” al fine di chiarire la possibilità di utilizzo di tutte le tipologie di ripartitori;

2) è stata cancellata la frase di cui al secondo comma del punto D.1 dell’appendice D: “la programmazione dei ripartitori, ai fini del progetto dell’impianto di contabilizzazione indiretta” al fine di consentire la scelta della metodologia più opportuna come richiesto dalla UNI EN 834.

Secondo il CTI (Comitato Termotecnico Italiano) la termoregolazione senza la contabilizzazione del calore è poco utile in quanto l’utente non è motivato ad utilizzarla. E, viceversa, la contabilizzazione del calore senza la termoregolazione è ugualmente inutile perché l’utente non può regolare il proprio consumo in modo autonomo ed equo.

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Sintetizzando ai fini di una corretta gestione del servizio di contabilizzazione, il responsabile dell’impianto deve:

  • fornire agli utenti informazioni dettagliate sul funzionamento dell’impianto di contabilizzazione del calore ed istruzioni per gestire in modo consapevole l’impianto;
  • fornire agli utenti un prospetto previsionale della spesa totale per climatizzazione invernale e ACS (da fornire in caso di prima attivazione degli impianti);
  • fornire agli utenti un prospetto a consuntivo riferito ai consumi effettivamente registrati.
  • attivare le procedure di verifica della funzionalità dell’impianto di contabilizzazione e termoregolazione;
  • provvedere alla verifica dei dispositivi per la contabilizzazione e termoregolazione, in caso di consumi ritenuti anomali;
  • conservare per almeno 5 anni i consumi validati al fine di determinare il consumo storico in modo da poterli confrontare con i consumi rilevati periodicamente.

In ultima analisi, evidenziamo le seguenti criticità della norma tecnica la quale non contempla: i coefficienti correttivi in base all’orientamento dell’appartamento, rendendo così più svantaggiati quelli situati nelle zone fredde (nord e nord-est); ulteriori deroghe temporali, oltre alla prima stagione termica, dopo l’entrata in vigore dell’obbligo di adeguamento degli impianti.

Responsabilitá e sanzioni

La decisione di adeguare il condominio alle nuove disposizioni normative è in capo all’assemblea dei condomini mediante una delibera, con le maggioranze previste dal comm. 2 dell’art. 1120 del Codice Civile. L’amministratore condominiale, o un soggetto terzo, è invece tenuto a provvedere all’installazione, alla revisione dei sistemi di contabilizzazione del calore e alla termoregolazione degli impianti centralizzati di cui è legalmente responsabile. I condomini che non adeguassero il proprio immobile, entro il 31 dicembre del 2016, sarebbero soggetti a sanzioni amministrative pecuniarie da parte delle Regioni.   
In Lombardia e Piemonte, a breve, i termini di adeguamento e le sanzioni saranno allineate alle scadenze nazionali e quindi prorogate. Considerando, che i lavori vanno eseguiti nei mesi in cui le caldaie sono spente (poiché occorre svuotare d’acqua l’intero impianto e smontare tutti i caloriferi) per adeguare l’impianto al nuovo decreto, rimane ancora una sola stagione (aprile – ottobre).

Il legislatore nazionale introduce sanzioni a partire dal 2017, non solo per la mancata installazione dei dispositivi, ma anche per la ripartizione delle spese del servizio di riscaldamento non conforme a quanto previsto dalla stessa legge, che rimanda alla norma tecnica UNI 10200 e s.m.i.

Si tratta del primo caso, per quanto ci consta, di norma sanzionatoria per ipotesi di ripartizioni di spese di un servizio comune non conforme alla legge. Se al Giudice compete un controllo, di mera legittimità, sulla delibera dell’assemblea condominiale con il conseguente potere di annullare, o meno la stessa, alla Regione invece compete il potere di obbligare il trasgressore a provvedere alla regolarizzazione in termini brevi dalla contestazione immediata, o dall’avvio del procedimento sanzionatorio che può essere avviato anche su segnalazione di un qualsiasi altro terzo portatore di un interesse legittimo (inquilino).

Ai sensi dell’art. 9, comma 5, lett. d) D.Lgs 102/2014 –Criterio di ripartizione della spesa– è fatta salva la possibilità, per la prima stagione termica successiva all’installazione dei dispositivi di cui al presente comma, di suddividere  in base ai soli millesimi di proprietà. 
Ai sensi dell’articolo 9, comma 5, lettera c) ART. 16  D. Lgs 102/2014 –Sanzione per la mancata installazione– il condominio e i clienti finali che acquistano energia per un edificio polifunzionale che non provvedono ad installare adeguati sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali (in corrispondenza di ogni radiatore) sono soggetti, ciascuno, alla sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 2500 euro. La disposizione di cui al primo periodo non si applica quando, da una relazione tecnica di un progettista, o di un tecnico abilitato risulta che l’installazione dei predetti sistemi non è efficiente in termini di costi. Una sanzione amministrativa di pari importo viene applicata al condominio alimentato dal teleriscaldamento, o dal tele raffreddamento, o da sistemi comuni di riscaldamento o raffreddamento, che non ripartisce le spese in conformità alle disposizioni di cui all’articolo 9 comma 5 lettera d) –Sanzione per una ripartizione non conforme a norma UNI 10200 del menzionato D.L. 
In caso di accertata violazione delle disposizioni il trasgressore e gli eventuali obbligati in solido sono diffidati a provvedere alla regolarizzazione dell’impianto condominiale, entro il termine di quarantacinque giorni dalla data della contestazione immediata, o dalla data di notificazione dell’atto di cui al comma 17.

Ci auguriamo che questa nuova disposizione non si traduca in un’ulteriore tassazione occulta per tutti coloro i quali, indipendentemente dalla loro volontà, non riusciranno ad adeguare gli impianti condominiali entro i termini stabiliti dalla legge.  

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La contabilizzazione e termoregolazione del calore negli edifici: perchè adeguare gli impianti

Con il D.L 4 luglio 2014, n. 102  Attuazione della direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica entro il 31 dicembre del 2016 i condomini, e gli edifici polifunzionali, dotati di un impianto di condizionamento dell’aria centralizzato, o rifornito da una rete di teleriscaldamento, dovranno dotarsi di sistemi di contabilizzazione, di termoregolazione del calore e adottare il criterio della ripartizione dei costi in base alla norma UNI 10200/2015. In questo articolo, il primo di una serie di quattro, vediamo brevemente le motivazioni dell’aggiornamento normativo ed i benefici dell’adozione delle tecniche moderne di contabilizzazione e regolazione del calore.

Riscaldamento: scegliere il sistema più adatto alle esigenze

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La premessa fondamentale a questo nuovo obbligo, deriva dal riconoscimento -da parte della UE- della necessità di affrontare sfide senza precedenti, ossia di ridurre la propria dipendenza dalle importazioni di energia non rinnovabile, di razionalizzare risorse energetiche scarse, nonché di contrastare i cambiamenti climatici e, insomma, di superare la crisi economica, aggravata molto probabilmente dal fallimento del modello economico lineare, ormai insostenibile. In questo contesto, dunque, l’efficienza energetica costituisce un valido strumento. Essa può migliorare la sicurezza dell’ approvvigionamento dell’Unione, riducendo il consumo di energia primaria del 20% -corrispondente a 368 MTOE (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) rispetto alle proiezioni del 1990- entro l’orizzonte temporale del 2020, diminuendo in particolare le importazioni di energia da fonti fossili e le conseguenti emissioni climalteranti. E infine, raggiungere l’obiettivo, non marginale rispetto a quanto fin qui elencato, di creare posti di lavoro di qualità elevata nei diversi settori connessi con l’efficienza energetica.

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Chi ha esperienza di partecipazione in assemblee dei condòmini, avrà sicuramente potuto constatare che, per i diversi modi di fruizione degli appartamenti (diverse esigenze d’orario, o locali inutilizzati per lunghi periodi, etc.) è altamente improbabile riuscire a soddisfare in qualche modo, e “contemporaneamente”, le diverse esigenze degli utenti, senza contrastare con il contenimento dei consumi, dei costi e quindi con il rispetto dell’ambiente. Ci aspettiamo dunque che, a conti fatti, la nuova disposizione possa finalmente essere un efficace strumento per la mitigazione delle esternalità negative e per indurre corretti comportamenti per la massimizzazione della redditività dell’investimento negli interventi di contabilizzazione dei consumi, salvaguardando il comfort all’interno dell’edificio e la salubrità dello stesso.

La termoregolazione e contabilizzazione negli impianti centralizzati

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Si tratta di due interventi che è consigliabile realizzare congiuntamente: la termoregolazione, poiché mira a ridurre il consumo di calore e la contabilizzazione, poiché serve per l’equa ripartizione delle spese condominiali.  Vediamone i principali vantaggi.

  1. Gestire il riscaldamento in base alle proprie esigenze, quindi garantire la flessibilità gestionale caratteristica del riscaldamento autonomo senza rinunciare ai vantaggi del riscaldamento centralizzato.
  2. Ottimizzare la correlazione tra la spesa attribuibile al singolo utente e il calore effettivamente prelevato dalla centrale termica.
  3. Premiare il comportamento virtuoso del singolo utente, il quale grazie all’utilizzo parsimonioso del servizio di erogazione, attraverso i dispositivi di termoregolazione, può ottenere una riduzione degli sprechi e quindi un aumento del risparmio dal 12 al 30%, corrispondente un risparmio in bolletta di circa 50 a 100 euro a bimestre. Esiste anche la possibilità di detrarre fiscalmente: del 50% gli interventi di sola installazione di termoregolazione e contabilizzazione del calore solo se è seguito a una ristrutturazione edilizia e del 65% (Econbonus) se l’intervento di efficientamento energetico riguarda la sostituzione della vecchia caldaia con una più efficiente, anche se effettuato dal condominio. Nel 2016 sono previste nuove agevolazioni nella prossima Legge di Stabilità con il nuovo bonus casa 2016 condomini.

Impianti centralizzati o termoautonomi?

Da un punto di vista puramente tecnico, gli impianti centralizzati presentano i seguenti vantaggi rispetto a quelli termoautonomi, sostenendo un’inversione di tendenza del mercato. Vediamone le principali motivazioni:

  • Minore costo di manutenzione: una sola visita annuale dell’idraulico.
  • Miglior controllo della manutenzione e maggiore sicurezza per tutti i condomini in generale.
  • Efficienza della caldaia in genere crescente con la potenza nominale.
  • In impianti molto grandi, possibilità di installare un cogeneratore oppure un trigeneratore (cogenerazione ad alto rendimento).
  • Un’unica canna fumaria, quindi si evitano i problemi di tiraggio tipici dei vecchi condomini (odori, monossido di carbonio…).
  • Possibilità di avere un unico impianto solare termico sul tetto del condominio, in parallelo con la caldaia.

Gli svantaggi dei sistemi centralizzati sono piuttosto limitati: la maggiore dispersione di calore nelle tubazioni -perché le tratte sono più lunghe, specialmente in condomini molto grandi- e i problemi “comportamentali” (il condomino che sistematicamente non paga la sua quota, quello che regola la temperatura al massimo e poi apre le finestre, e tante altre storie di ordinaria conflittualità condominiale).

Da un punto di vista tariffario, la convenienza non è così evidente come possiamo immaginare, in parte per la scarsa trasparenza che da sempre caratterizza le utilities, in parte anche per la legislazione in continuo divenire che privilegia, a seconda dei governi di turno, l’una o l’altra lobby (di fabbricanti di caldaie, installatori, ecc.).
A novembre 2015 la situazione è la seguente: l’IVA e le aliquote di accise, come si evince dalla tabella 1, variano con la regione geografica e crescono con il consumo.  

Fasce di consumo annuo Aliquota di accisa Centro Nord Aliquota di accisa Territori Mezzogiorno Aliquota IVA

Da 0 a 120 mc

0,044 €/mc 0,038 €/mc 10%

Da 121 a 480 mc

0,175 €/mc

0,135 €/mc

10%

Da 481 a 1560 mc

0,170 €/mc

0,120 €/mc

22%

Oltre 1560 mc

0,186 €/mc

0,150 €/mc

22%

Tabella 1: Imposta sul valore aggiunto (IVA) , tratta da www.famiglia.eni.it

“La somministrazione di gas naturale per usi civili, per effetto di quanto disposto dall’articolo 2 del D.Lgs. 2.2.2007 n. 26, dal 1° gennaio 2008, è soggetta all’aliquota IVA del 10% sui primi 480 metri cubi consumati in ogni anno solare e all’aliquota IVA del 22% sui consumi eccedenti tale ammontare, nonché ad aliquote di accisa (e di addizionale regionale) differenziate in relazione a quattro scaglioni di consumo, ai quali vengono imputati i consumi di ciascun anno solare.”

In genere, le quote fisse e le componenti variabili di costo sono molto articolate, come si evince dalle tariffe del servizio di fornitura domestica “in maggior tutela” pubblicate dall’ENI.

Suggeriamo il seguente esercizio per valutare la convenienza di un impianto centralizzato rispetto ad uno termoautonomo: ad esempio si consideri un condominio di 6 unità abitative nella Regione Piemonte. Per semplicità, supporremo che il consumo termico annuo sia identico per tutti gli appartamenti, pari a 250 Sm3 (metri cubi standar) equivalenti di gas (PCS = 38,52 MJ/Sm3).
La Tabella 2 illustra il costo annuo per appartamento in entrambe le ipotesi impiantistiche, calcolato in base alle voci di costo definite nel sito dell’ENI.

Voce di spesa annua corrisp. unitario Impianto termoautonomo Impianto centralizzato
quantità totale quantità totale/6 unità
Componente servizio trasporto (€/Sm3) 0,045327 250 11,33175 1500 11,33175
Costi fissi distribuzione (€/anno) 61,79 1 61,79 1 10,29833333
Costi variabili distribuzione (€/Sm3)          
da 0 a 120 Sm3 0 120 0 120 0
da 121 a 480 Sm3 0,078303 130 10,17939 360 4,69818
da 481 a 1560 Sm3 0,071669 0 0 1020 12,18373
Costo della materia prima gas (€/Sm3) 0,267563 250 66,89075 1500 66,89075
Oneri aggiuntivi (€/Sm3) 0,0245 250 6,125 1500 6,125
Componente vendita al dettaglio cliente domestico  singolo (€/anno) 57,76 1 57,76 0 0
Componente vendita al dettaglio cliente domestico  condominio (€/anno) 75,86 0 0 1 12,64333333
Componente vendita al dettaglio, parte variabile (€/Sm3) 0,007946 250 1,9865 1500 1,9865
Componente squilibri e perequazione (solo condomini e utenze non domestiche, €/Sm3) 0,001336 0 0 1500 0,334
Componente fondo per risparmio energetico ed energie rinnovabili (€/Sm3) 0,0069 250 1,725 1500 1,725
Componenteoneri fondo qualità servizi (€/Sm3) 0,001526 250 0,3815 1500 0,3815
Componente eventuali squilibri perequazione ed eventuali conguagli (€/Sm3) 0,013617 250 3,40425 1500 3,40425
Compensazione dei costi di commercializzazione, parte fissa (€) -27,01 1 -27,01 1 -4,501666667
Compensazione dei costi di commercializzazione, parte variabile          
da 0 a 120 Sm3 0 120 0 120 0
da 121 a 480 Sm3 0,0376 130 4,888 360 2,256
da 481 a 1560 Sm3 0,0217 0 0 1020 3,689
Componente per servizio di misura (€/Sm3) 0,003175 250 0,79375 1500 0,79375
           
Aliquote d’accisa Centro-Nord          
da 0 a 120 Sm3 0,044  120 0 120 0
da 121 a 480 Sm3 0,175 130 22,75 360 10,5
da 481 a 1560 Sm3 0,17 0 0 1020 28,9
           
Subtotale annuo     222,99589   173,63941
IVA          
da 0 a 120 Sm3 10% 107,03803 10,70380272 83,346917 1,38911528
da 121 a 480 Sm3 10% 115,95786 11,59578628 250,04075 4,16734584
da 481 a 1560 Sm3 22% 0 0 708,44879 25,97645574
           
Totale Annuo     245,295479   205,1723269

Si osserva una convenienza di 40 € annui a favore degli impianti condominiali centralizzati rispetto a quelli termoautonomi. La condizione sine qua non, affinché detta convenienza sia effettiva, risiede proprio nella condizione che la ripartizione della spesa sia assolutamente equa, fatto possibile solo in presenza di un impianto di contabilizzazione ben progettato e correttamente installato.

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Fotocatalisi: lampade LED purificano l’aria

La necessità di vivere in un ambiente più pulito e salubre esorta, ormai da tempo, i ricercatori a pensare ad un uso ecocompatibile della luce e del sole e ad indagare, nell’ambito della fotochimica applicata ai materiali da costruzione, nuove strategie per ridurre l’inquinamento ambientale. Negli ultimi anni l’interesse scientifico e tecnico per le applicazioni della fotocatalisi è aumentato in misura considerevole, fino ad approdare alle lampade con tecnologia LED per purificare l’aria.

LA FOTOCATALISI PER PURIFICARE L’ARIA

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Cos’è la fotocatalisi

Akira Fujishima dell’università di Tokio nel 1990 è stata la prima ad osservare che una pellicola di biossido di titanio sotto l’azione della luce del sole azionava un processo di fotocatalisi.

La fotosintesi clorofilliana delle piante è un tipico esempio di fotocatalisi. A differenza della fotosintesi, in cui la clorofilla cattura la luce solare per trasformare acqua e anidride carbonica in ossigeno e glucosio, la fotocatalisi (in presenza di un catalizzatore e di luce) genera un agente ossidante in grado di trasformare le sostanze organiche presenti nell’aria in anidride carbonica e sali (nitrati di sodio e di calcio).

È un processo che già avviene in natura ma che la fotocatalisi accelera. I sali che si depositano al suolo vengono rimossi dal vento e dalla pioggia, mentre l’anidride carbonica si disperde nell’atmosfera.

Il fotocatalizzatore in questo caso è il biossido di titanio (TiO2) che, irraggiato dalla luce solare o da una lampada a raggi UV sulla lunghezza d’onda 400-315 nm, assorbe l’energia portata da un fotone e scatena la reazione che decompone le sostanze inquinanti organiche ed inorganiche presenti nell’aria sottoposta al processo. Il meccanismo con cui i materiali come il biossido di titanio trasferiscono l’energia assorbita dalla luce ad altre sostanze poste nelle loro immediate vicinanze consiste nella donazione di elettroni. Il titanio non interviene nella reazione fotocatalitica, la favorisce soltanto prestando i suoi elettroni che successivamente riacquista dall’ambiente. Quindi non si consuma. Il biossido di titanio si comporta solo come accettore di elettroni. 

Applicazioni tradizionali della fotocatalisi

Sono stati concepiti depuratori d’aria di diverse dimensioni, da quelli per uso domestico a sistemi di ventilazione per trafori. Un’altra applicazione è quella di rivestire i materiali da costruzione con fotocatalizzatori per rimuovere gli agenti inquinanti dalle strutture. Questo metodo che può essere chiamato “passive air purification”. L’obiettivo principale è la riduzione dei livelli di ossido di azoto (gas NOx) che oltre a creare problemi respiratori, contribuisce alla formazione dello smog e delle piogge acide. I prodotti fotocatalitici in grado di abbattere l’inquinamento atmosferico rientrano nelle “Linee Guida per l’utilizzo di sistemi innovativi finalizzati alla prevenzione e riduzione dell’inquinamento ambientale” indicate dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio con decreto ministeriale del 1 aprile 2004 in attuazione della legge 16 gennaio 2004 n. 045. Secondo il CodiceST001 sono materiali fotocatalitici: “malte, pavimentazioni, pitture, intonaci e rivestimenti contenenti sostanze fotocatalitiche con biossido di titanio per la riduzione di ossidi di azoto, VOC, batteri e di altri inquinanti atmosferici”.

L’efficacia della reazione fotocatalitica è massima durante il giorno e minima nelle ore di oscurità, tranne nel caso di utilizzo di lampade a raggi UV che garantiscono quindi una stessa efficacia. Pertanto, una tipica applicazione di materiali fotocatalitici è quella di usare lampade UV per purificare l’aria. I raggi UV, tuttavia, sono anche conosciuti per i loro effetti a lungo tempo nocivi per gli essere viventi, responsabili di danni alla salute ed in particolare alla pelle.

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Applicazione delle lampade LED nel processo fotocatalitico

A differenza degli altri sistemi di illuminazione tradizionali con uno spettro continuo in cui sono presenti contemporaneamente tante frequenze cromatiche, il LED ha una sola frequenza e produce un fascio luminoso assolutamente privo di raggi infrarossi e ultravioletti. Oltre ai vantaggi in termini di risparmio energetico, durata e di sostituzione/manutenzione derivanti dal sistema di illuminazione LED, queste lampade sono utilizzate per purificare l’aria attraverso il processo di fotocatalisi, sostituendo la tecnologia tradizionale attivata dai raggi UV. Il catalizzatore, infatti, si attiva con luce visibile.

L’attività di purificazione avviene durante tutto il tempo di accensione, grazie al trattamento della lampada con una nanotecnologia, frutto di ricerca e innovazione. La luce attiva il processo di fotocatalisi che permette alle molecole di triossido di tungsteno (WO3) di generare i Reactive Oxygen Species, capaci di decomporre gli odori sgradevoli (derivanti, ad esempio, da cucina o bagno), gas e vapori inquinanti (come la formaldeide), ma anche di distruggere virus, germi e batteri. Il Triossido di Tungsteno è più efficace di qualsiasi altro agente antibatterico (e di altri materiali fotocatalitici come il biossido di titanio che reagiscono principalmente ai raggi UV). Queste innovative lampade LED, quindi, illuminano gli ambienti svolgendo contemporaneamente le funzioni appena citate.

Tra i vantaggi nell’utilizzo della tecnologia LED durante il processo fotocatalico il primo e più interessante è senz’altro il fatto che il catalizzatore, ovvero il triossido di tungsteno, non si attiva con i raggi UV; la reazione, come detto all’inizio, non consuma il catalizzatore che ricopre la superficie della lampada, quindi non c’è bisogno di nessuna manutenzione o sostituzione del film; inoltre, non vengono rilasciati materiali inquinanti.

Questa innovazione nel campo dell’efficienza energetica e della sanificazione dell’aria trova diversi campi d’applicazione: strutture di cura, residenze per anziani, ambulatori pubblici e privati, scuole, hotel, ristoranti, mezzi di trasporto pubblico e tutti i luoghi in cui è presente un forte inquinamento indoor o si rende necessario garantire la salute e il benessere delle persone.

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Gioielli smog free: l’aria pulita secondo Daan Roosegaarde

Quando il designer Daan Roosegaarde uscì dalla doccia della sua stanza d’albergo a Pechino, in un lunedì d’autunno, vide dalla sua finestra l’iconica sede della China Central Television. Il giorno seguente e quello dopo ancora gli edifici della CCTV erano completamente oscurati dal pesante smog della città. Da questa esperienza nacque l’idea di incorporare quel pesante inquinamento atmosferico in un’altra delle sue sperimentazioni: Roosegaarde è infatti noto in tutto il mondo per le sue opere interattive  e i suoi progetti sociali che creano relazioni futuristiche nel rapporto umano-tecnologia-natura. Così dopo Dune, Waterlicht e Smart Highway, lo Studio Roosegaarde ed il suo team di esperti hanno creato la Smog Free Tower, “il più grande aspirapolvere del mondo” – così come lo stesso designer ha voluto definirla.

IL MATTONE IN CALCESTRUZZO POROSO CHE FILTRA L’ARIA

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La Smog Free Tower di Roosegaarde

La torre usa una tecnologia brevettata agli ioni per migliorare la qualità dell’aria nelle sue vicinanze e per produrre delle “bolle” di spazio pubblico prive di smog, permettendo alle persone di testare l’esperienza sensoriale del respirare aria pulita.

L’obiettivo del progetto non è ovviamente limitato al contesto locale ma ha orizzonti ben più ampi: l’esperienza sensoriale dell’aria fino al 75% più pura vuole essere di sensibilizzazione per le persone che la sperimentano, stimolandole ad immaginare un futuro pulito in cui essi possano diventare parte della soluzione invece che del problema, con la collaborazione ed il lavoro sinergico dei governi, delle organizzazioni non governative, del settore delle industrie clean-tech.

La prima torre Smog Free, alta circa 7 metri, è stata aperta al pubblico da Settembre, in seguito ad una campagna di fundraising, in Vierhavensstraat 52, a Rotterdam e prossimamente farà il giro del mondo, visitando anche città come Los Angeles, Città del Messico e la stessa Pechino.

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Il funzionamento della torre smog free

Dopo aver studiato, fin dai primi anni del 2000, i processi di ionizzazione e il meccanismo naturale di pulizia dell’aria dell’olivello spinoso – una pianta della famiglia delle Hippophae, capace di rimuovere dall’aria le particelle di sabbia, sale e particolato – Bob Ursem, ricercatore dell’Università di Tecnologia di Delft, ne immaginò una versione artificiale: dalla collaborazione con il team dello studio Roosegaarde e con European Nano Solution è poi nata la Smog Free Tower.

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L’aria viene aspirata all’interno della torre da un sistema di aspirazione radiale posto nella parte alta ed entra in un comparto interno nel quale le particelle più piccole di 15 micrometri vengono ionizzate – gli atomi o le molecole rimangono carichi positivamente. Come trucioli di ferro attirati da una calamita le particelle cariche vengono attratte da un elettrodo posto nella parte bassa dello stesso comparto. Dopo essere stata privata di polveri sottili e particolato all’interno l’aria pulita viene pompata all’esterno da aperture situate nella parte bassa della torre. Il funzionamento della torre è garantito da un impianto microeolico ed essa, utilizzando grossomodo la stessa quantità di energia elettrica di uno scaldabagno, è in grado di pulire circa 30000 metri cubi d’aria l’ora senza produrre ozono.

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I gioielli Smog Free

Per concretizzare il lavoro della macchina e rendere il problema dello smog più tangibile, lo studio Roosegaarde ha poi ideato qualcosa di estremamente rappresentativo: con il particolato ottenuto come sottoprodotto della pulizia dell’aria da parte del macchinario, vengono creati dei gioielli Smog Free, un anello o dei gemelli rispettivamente per donne e per uomini. Le particelle di carbonio vengono compresse e sigillate in un cubetto di resina che racchiude 1000 metri cubi di aria pulita: un gioiello che ci si augura sia davvero “per sempre!”.

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Gridshell: gusci strutturali a graticcio

Le gridshell (gusci strutturali a graticcio) sono strutture che incrociano il comportamento strutturale del guscio (shell) con quello del graticcio (grid), due famiglie molto distanti tra loro, una dalle curve morbide e l’altra caratterizzata da geometria e rigore cartesiano.

Le strutture in legno leggere sono state spesso oggetto di studio e sperimentazione. Dalle prime balloon frame alle visionarie sperimentazioni di Frei Otto ed Edmund Happold, fino ad arrivare alle strutture più dinamiche di Ville Hara e Mutsuro Sasaki, si assiste ad un graduale passaggio da una concezione bidimensionale ad una tridimensionale, dove gli elementi del graticcio strutturale piano si piegano in configurazioni spaziali resistenti.

SHIGERU BAN E LA STRUTTURA IN LEGNO PER IL GOLF CLUB

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La nascita e gli sviluppi delle gridshell

Il primo a sperimentare questa tecnica è Frei Otto con la Multihalle di Mannheim del 1975, che risulta essere la più grande gridshell autoportante in legno nel mondo, classificata come monumento storico-culturale nel 1998, per la sua forma insolita, l’ampia luce, per l’uso innovativo del legno impiegato per creare un reticolo complesso e flessibile che non aveva precedenti eguali nella storia della carpenteria.

Molte altre gridshell, anche di materiali differenti, sono state create dopo il progetto del Mannheim Pavilion, come il Padiglione del Giappone in tubi di cartone (Hannover, 2000, Shigeru Ban e Frei Otto), il Weald e Downland gridshell in rovere (Singleton, 2002, Buro Happold e Edward Cullinan) e il Savill gridshell in larice (Windsor, 2006, Buro Happold e Glen Howells Architects).

caption: Frei Otto

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Equilibrio, leggerezza e semplicità sono gli aggettivi che meglio identificano questi gusci strutturali a graticcio. Ma anche resistenza, rigidezza, razionalità e consapevolezza delle tecniche costruttive e delle proprietà del materiale. Forme sinuose capaci di coprire spazi considerevoli e garantire grande flessibilità spaziale.

Tutte le parti costituenti la maglia strutturale hanno una dimensione ridotta e sono semplici da produrre. Le bacchette sono facilmente sostituibili poiché non sono né incastrate né incollate. E’ una struttura che dura nel tempo, grazie al suo stesso sistema costruttivo. Basti pensare al Multihalle di Mannheim che dopo 40 anni ancora è in piedi, nonostante i limiti tecnologici del tempo in cui è stato pensato e realizzato.

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Strutture resistenti per forma

Se la materia è flessibile, configurata in una maniera specifica e vincolata a estremità fisse, è in grado di autosostenersi, di sopportare un certo carico e coprire determinate luci. Le gridshell sono considerate pertanto strutture resistenti per forma.

Le gridshell in legno si realizzano seguendo le seguenti fasi:

  • Tessitura e cucitura: gli elementi lineari si assemblano in una trama regolare e si fissano secondo la forma desiderata; questa operazione avviene in piano. La tessitura ha le caratteristiche della produzione industriale e razionale a ricordare il concetto del graticcio, la manifattura quella dell’azione artigianale, organica, più vicina al tema del guscio.
  • Deformazione: le parti si forzano ad assumere la forma finale, attraverso la flessione degli elementi e la deformazione delle maglie, che da quadrate diventano romboidali. Ciò è possibile grazie alla grande elasticità del legno e quindi sulla sua disponibilità a essere deformato anche in maniera sensibile senza spezzarsi, ma flettendosi dolcemente e cambiando la geometria delle maglie. Una volta formate, quest’ultime si fissano al suolo e si procede alla posa degli irrigidimenti diagonali, cavi metallici o altri elementi lignei, che gli attribuiscono la necessaria rigidezza. Come accade per il fasciame delle barche, la messa in coazione delle bacchette produce la doppia curvatura finale. Tuttavia, è una forma che più che essere imposta al materiale, va calcolata già in fase di progetto.

Attraverso appositi programmi di calcolo strutturale bisogna valutare dove e in che misura applicare le pressioni per attribuire alla struttura la forma che si vuole realizzare.

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La sostenibilità delle gridshell

I gusci strutturali a graticcio post-formati sono sostenibili in quanto composti da un materiale ecologico per eccellenza, il legno, secondo una produzione in parte industrializzata e in parte hand-made. La fase di cantiere prevede l’utilizzo di macchinari dal ridotto consumo e la leggerezza delle parti consente di muovere tutto a mano. Le giunzioni non prevedono l’uso di collanti chimici né di trattamenti superficiali con prodotti di sintesi; le bacchette, infatti, sono bullonate, così da essere facilmente sostituibili e reversibili. Ciò comporta principalmente la garanzia, alla fine del ciclo di vita, di poter smaltire ecologicamente il legno di cui la struttura si compone.

Le gridshell in Italia

In Italia l’unico gruppo di ricerca sul tema gridshell è guidato dall’Arch. Prof. Sergio Pone, del Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”, che dal 2006 sperimenta forme e sistemi di costruzione diversi, in collaborazione con gli architetti Sofia Colabella e Bianca Parenti. Nel 2014, un gruppo tutto italiano formato da Sofia Colabella, Alberto Pugnale (docente presso la Melbourne School of Design) e Sergio Pone (docente presso UniNa), ha progettato e realizzato con gli studenti australiani, la prima gridshell post-formata in accoya d’Australia. L’accoya è una varietà di legname di eccezionale durabilità e stabilità dimensionale, dalle elevate prestazioni, atossico e resistente agli ambienti esterni più ostili.

Tra le gridshell realizzate in Italia si citano: la copertura della corte di una casa rurale a Ostuni nel 2007; la Woodome, gazebo nella corte della Masseria Ospitale di Lecce nel 2009; la copertura della terrazza sempre presso la Masseria Ospitale Lecce nel 2010; il gazebo nella sede della Holzbau sud Calitri nel 2010; la gridshell all’interno del Parco archeologico di Selinunte nel 2012; Toledo 2, un padiglione nel cortile della Scuola di Architettura di Napoli nel 2014.

Tra tradizione e modernità

Il sistema costruttivo delle gridshell si rifà a tecniche costruttive molto antiche. Si ispira, infatti, sia ad una tecnica millenaria, tipica di alcune popolazioni asiatiche e australiane, di lavorare il bambù, sia alla sapiente tradizione costruttiva degli scafi in legno.

Questi gusci strutturali a graticcio, si adattano all’ambiente urbano e naturale, dialogando con il costruito ma anche con la natura. Data la flessibilità delle geometrie strutturali è possibile intervenire, con leggerezza, sia negli edifici del paesaggio rurale che nei contesti aperti più complessi delle città. La possibilità di personalizzazione offre poi infinite possibilità di configurazioni spaziali, attraverso software molto complessi, basati su algoritmi generativi e sulla progettazione parametrica (come Kangaroo e Karamba, all’interno del programma Grasshopper). Progettazione parametrica, innovazione, approccio ecologico, creatività e collaborazione pratica sono gli elementi base per una continua “ricerca della leggerezza” in architettura.

Grande libertà compositiva che ben si adatta alla molteplicità e complessità della società contemporanea, sempre più mutevole e dinamica.

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http://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/progetti/in-europa/torre-cedri-bosco-boeri-551/
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La facciata che reagisce alla pioggia

Osservare i fenomeni naturali e gli organismi naturali è da sempre una fonte di ispirazione per artisti e architetti. Quesiti complessi trovano spesso semplici soluzioni, basta saper guardare con gli occhi giusti il mondo che ci circonda. Questo è quello che ha fatto Chao Chen, uno studente del Master in Product Design al Royal College of Arts di Londra, che si è lasciato ispirare dal meccanismo di reazione delle pigne sotto la pioggia per realizzare una facciata biomimetica.

FACCIATE VIVENTI: LO SCHERMO DINAMICO PENUMBRA

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L’acqua è fondamentale per l’uomo e per la Terra, ma per gli edifici e gli architetti la pioggia rappresenta forse il nemico numero uno, ma un’attenta progettazione può sovvertire il problema acqua piovana e permettere di sfruttarla a proprio favore, recuperandola e riutilizzandola, o può dar vita a sistemi innovativi molto interessanti.

Lasciarsi ispirare dalla natura

Passeggiando ad Hyde Park, in una giornata piovosa londinese, Chao Chen ha osservato che le pigne a contatto con le gocce di pioggia allungavano il loro guscio esterno per proteggere i loro semi. Incuriosito decide di osservare con più attenzione come è fatta una pigna: sezionandola si accorge che è composta di due gusci, uno interno ed uno esterno, il primo si allunga oltre il secondo strato, in modo da impedire che i semi vengano a contatto con l’acqua piovana.

“Questo fenomeno naturale– dice Chao Chen- mi ha portato a uno studio sulla scienza del bio-mimetismo e mi ha ispirato nell’ideazione di un materiale laminato che reagisce con l’acqua.”

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Sfruttando le proprietà del materiale, è riuscito a realizzare una superficie biomimetica che a seconda del grado di umidità dell’aria muta la sua forma naturalmente, senza l’utilizzo di sistemi elettronici o strutture meccaniche. Questo è possibile perché le fibre si espandono a contatto con l’acqua distendendosi, cosicché ne risulta una superficie che allungandosi o incurvandosi si apre e si chiude a seconda della pioggia.

Questo materiale è stato studiato per diversi contesti, di tipo agricolo e di tipo architettonico: utilizzando una lamina di materiale nel suolo, è possibile capirne il grado di umidità, così come è possibile creare una superficie che cambia colore a contatto con l’acqua, o creare una superficie dinamica che si apre e si chiude per impedire all’acqua di entrare all’interno di un edificio.

  • Indicatore per il giardinaggio – Una lamina di materiale composta da un lato color rosa e uno azzurro, utilizzata nei vasi o nella terra, permette di rilevare il grado di umidità del suolo, è così possibile capire quando annaffiare le piante. Quando la terra è secca il materiale si alza mostrando il lato rosa, mentre quando la terra è umida il materiale si curva mostrando il lato azzurro.
  • Pensilina che reagisce alla pioggia – Una seconda applicazione è quella ideata per una pensilina intelligente composta da lamelle che si chiudono a contatto con l’acqua per impedire agli utenti di bagnarsi, nelle giornate di sole le lamelle sono invece aperte in modo da far passare la luce naturale filtrata da queste finte foglie, che fungono da schermatura, si avrà così l’impressione di essere sotto un albero.
  • Superficie architettonica che reagisce alla pioggia 

caption: L'indicatore per il giardinaggio

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caption: La pensilina che reagisce alla pioggia

Questo terzo prototipo, della superficie architettonica che reagisce alla pioggia, è pensato per l’involucro degli edifici, una superficie composta da elementi romboidali uniti tra loro attorno a dei perni, un po’ come fossero i petali di un fiore. Questi elementi sono liberi di curvarsi e di distendersi: nelle giornate di pioggia la superficie risulterà compatta e chiusa, mentre nelle giornate di sole questi elementi si incurvano e lasciano passare le radiazioni solari all’interno degli ambienti.

Essendo pensato per città molto piovose e grigie, il materiale è di tonalità chiare, per dare più luminosità alle facciate e rendere più piacevoli le giornate uggiose. Chen sta continuando a sviluppare questi prototipi, prima di poter essere messi sul mercato è necessario infatti verificare la resistenza del materiale ai venti o il numero di volte in cui può rimanere a contatto con l’acqua.

Un’idea brillante che unisce la funzionalità all’estetica. Non ci resta che aspettare di vederli applicati in un edificio!

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La Torre dei Cedri: il nuovo bosco verticale di Stefano Boeri a Losanna

Il nuovo bosco verticale, dopo quello di Milano, sorgerà a Losanna: il progetto per la costruzione della nuova torre verde è stato affidato allo studio Stefano Boeri Architetti (Sba): si tratta di una costruzione sostenibile che verrà realizzato nel comune di Chavannes-Près-Renens, in un aggregato urbano della cittadina svizzera. “La Torre dei Cedri”, così denominata, nasce da un progetto che ha visto la collaborazione di Stefano Boeri con Buro Happold Engineering e con l’agronoma Laura Gatti; il costruttore svizzero Bernard Nicod renderà possibile la concretizzazione dell’edificio.

IL BOSCO VERTICALE DI BOERI A MILANO

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Gli alberi del nuovo bosco verticale di Boeri

La torre di Losanna ospiterà 100 alberi di cedro, 6 mila arbusti e 18 mila piante di differenti tipologie, per un’altezza complessiva di 117 metri; saranno inoltre presenti alberi di cedro appartenenti a quattro differenti specie. L’edificio sarà caratterizzato da forme ortogonali della facciata, che ospiteranno al loro interno terrazze ricche di verde, per un totale di oltre 24.000 piante.

Il nuovo edificio sarà il primo al mondo con l’80% di alberi sempreverdi, e potrà in questo modo fornire un importante contributo ecologico sia per fissare le polveri sottili che per assorbire anidride carbonica e produrre ossigeno; il significativo apporto fornito per la riduzione dell’inquinamento urbano nasce dalla possibilità di combattere l’effetto isola di calore e di favorire la biodiversità nell’ambiente urbano.

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Le caratteristiche de La Torre dei Cedri

La Torre dei Cedri sarà costituita da 36 piani, per un totale di circa 3.000 mq ed ospiterà non solo residenze private, ma anche una palestra ed un ristorante panoramico. Intorno al grattacielo, il progetto prevede un centro commerciale ed un parco, circondato da una serie di palazzine più basse.

Stefano Boeri ha affermato: “Con La Torre dei Cedri avremo la possibilità di realizzare un edificio sobrio e insieme di grande importanza nel paesaggio di Losanna. Un’architettura capace tra l’altro di innestare una significativa biodiversità di specie vegetali nel cuore di una importante città europea”.

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Saie Smart House: i progetti di urbanistica più green

Anche quest’anno il SAIE, Salone dell’Innovazione Edilizia di Bologna, ha voluto premiare i progetti di urbanistica che meglio hanno saputo interpretare il concetto del green building, attraverso la riqualificazione architettonica degli spazi urbani e delle aree industriali in disuso.

Il premio RI.U.SO di Saie Smart House 2015 dedicato all’urbanistica green e alla rigenerazione urbana sostenibile è stato assegnato dalla giuria che ha valutato gli aspetti urbanistici legati alla sostenibilità del progetto, con particolare attenzione al concetto di densificazione e rigenerazione urbana per ridurre il consumo di territorio.

IL RICICLO DEI VUOTI URBANI: UN PROGETTO IN SPAGNA

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I PROGETTI VINCITORI DEL PREMIO RI.U.SO.

“Ripartire dalla città esistente”  vincitore per la sezione architetti

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Il progetto di via Andrea Costa portato avanti dal gruppo di lavoro con a capo Mauro Sarti è riuscito a trasformare un luogo, che fino a prima era solamente di passaggio e di parcheggio, in uno spazio a servizio della comunità dotato di una zona verde attrezzata che mira al raggiungimento di un’idea di boulevard sempre più sentita nella città contemporanea. L’intervento ha trasformato la strada esistente in un grande viale alberato con uno spazio verde che ha triplicato le sue dimensioni, attraverso il ridisegno anche dei giardini vicini. Il progetto mette in gioco una nuova visione della città dove in primo piano si trovano gli spazi verdi per la socialità, costruiti per rispondere alle esigenze dell’uomo prima di tutto. Lo spazio verde rimane integro, non viene corrotto dalla necessità di trovare risposta alle esigenze più pratiche, relegate infatti ad un livello secondario: la nuova isola ecologica viene realizzata al di sotto del livello stradale, utilizzando uno spazio che di più si presta a svolgere una funzione di questo tipo, garantendo anche un maggior risultato non solo dal punto di vista progettuale, ma anche pratico.

“Rehabitar” vincitore per la sezione Università Enti Fondazioni e Associazioni

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La continua trasformazione della città contemporanea ha messo in moto un processo di reinterpretazione dei vecchi poli industriali e artigianali dismessi; il Poblenou, quartiere storico di Barcellona è uno di questi spazi che si è caratterizzato negli ultimi vent’anni per una serie di profondi cambiamenti. Questo continuo processo di trasformazione, che attualmente muove ancora le sue macchine, ha contribuito però a creare un tessuto disomogeneo che spesso è rimasto inconcluso. È proprio su questo che i progettisti, capitanati da Sara Neglia, si sono concentrati, con l’obiettivo di ridare vita ad un distretto industriale ormai dismesso. L’idea di progetto si basa su una proposta che abbia come risultato la formazione di un modello per una strategia di riuso articolata in tre fasi, con lo scopo non tanto di definire un’architettura, ma piuttosto diffondere un processo di trasformazione che riesca a fondere i nuovi sistemi con l’esistente. L’integrazione diventa così un punto fondamentale dell’intero percorso progettuale, attraverso la sperimentazione e la partecipazione attiva dei cittadini che vivono questi spazi.

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Un buon risultato secondo gli organizzatori del premio che hanno visto la partecipazione di 1200 progetti, a testimoniare della ricchezza e della qualità della progettazione sui temi di sviluppo sostenibile della città. I progetti hanno saputo interpretare al meglio il carattere della competizione offrendo prodotti di grande qualità, segno che si sta diffondendo una sensibilità e una voglia di misurarsi sui temi della progettazione sostenibile.

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Saie Smart House: i progetti di urbanistica più green

Anche quest’anno il SAIE, Salone dell’Innovazione Edilizia di Bologna, ha voluto premiare i progetti di urbanistica che meglio hanno saputo interpretare il concetto del green building, attraverso la riqualificazione architettonica degli spazi urbani e delle aree industriali in disuso.

Il premio RI.U.SO di Saie Smart House 2015 dedicato all’urbanistica green e alla rigenerazione urbana sostenibile è stato assegnato dalla giuria che ha valutato gli aspetti urbanistici legati alla sostenibilità del progetto, con particolare attenzione al concetto di densificazione e rigenerazione urbana per ridurre il consumo di territorio.

IL RICICLO DEI VUOTI URBANI: UN PROGETTO IN SPAGNA

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I PROGETTI VINCITORI DEL PREMIO RI.U.SO.

“Ripartire dalla città esistente”  vincitore per la sezione architetti

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Il progetto di via Andrea Costa portato avanti dal gruppo di lavoro con a capo Mauro Sarti è riuscito a trasformare un luogo, che fino a prima era solamente di passaggio e di parcheggio, in uno spazio a servizio della comunità dotato di una zona verde attrezzata che mira al raggiungimento di un’idea di boulevard sempre più sentita nella città contemporanea. L’intervento ha trasformato la strada esistente in un grande viale alberato con uno spazio verde che ha triplicato le sue dimensioni, attraverso il ridisegno anche dei giardini vicini. Il progetto mette in gioco una nuova visione della città dove in primo piano si trovano gli spazi verdi per la socialità, costruiti per rispondere alle esigenze dell’uomo prima di tutto. Lo spazio verde rimane integro, non viene corrotto dalla necessità di trovare risposta alle esigenze più pratiche, relegate infatti ad un livello secondario: la nuova isola ecologica viene realizzata al di sotto del livello stradale, utilizzando uno spazio che di più si presta a svolgere una funzione di questo tipo, garantendo anche un maggior risultato non solo dal punto di vista progettuale, ma anche pratico.

“Rehabitar” vincitore per la sezione Università Enti Fondazioni e Associazioni

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La continua trasformazione della città contemporanea ha messo in moto un processo di reinterpretazione dei vecchi poli industriali e artigianali dismessi; il Poblenou, quartiere storico di Barcellona è uno di questi spazi che si è caratterizzato negli ultimi vent’anni per una serie di profondi cambiamenti. Questo continuo processo di trasformazione, che attualmente muove ancora le sue macchine, ha contribuito però a creare un tessuto disomogeneo che spesso è rimasto inconcluso. È proprio su questo che i progettisti, capitanati da Sara Neglia, si sono concentrati, con l’obiettivo di ridare vita ad un distretto industriale ormai dismesso. L’idea di progetto si basa su una proposta che abbia come risultato la formazione di un modello per una strategia di riuso articolata in tre fasi, con lo scopo non tanto di definire un’architettura, ma piuttosto diffondere un processo di trasformazione che riesca a fondere i nuovi sistemi con l’esistente. L’integrazione diventa così un punto fondamentale dell’intero percorso progettuale, attraverso la sperimentazione e la partecipazione attiva dei cittadini che vivono questi spazi.

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Un buon risultato secondo gli organizzatori del premio che hanno visto la partecipazione di 1200 progetti, a testimoniare della ricchezza e della qualità della progettazione sui temi di sviluppo sostenibile della città. I progetti hanno saputo interpretare al meglio il carattere della competizione offrendo prodotti di grande qualità, segno che si sta diffondendo una sensibilità e una voglia di misurarsi sui temi della progettazione sostenibile.

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Renzo Piano e “la scuola che farei”: l’edilizia scolastica sarà sostenibile

Situata in periferia, articolata intorno ad un albero e con la “torre dei libri” (ovvero la biblioteca) che corre a tutta altezza fino al terrazzo: è “la scuola che farei , un modello di scuola sostenibile che Renzo Piano, architetto italiano di fama internazionale e Senatore a vita, ha elaborato insieme al maestro e pedagogo Franco Lorenzoni e allo psichiatra e sociologo Paolo Crepet.

In copertina: Il disegno in cui Renzo Piano rappresenta la sua scuola ideale

Il progetto de “la scuola che farei”

 Il progetto è stato ideato a marzo 2015 quando proprio il maestro Lorenzoni pubblica un articolo dal titolo provocatorio “Cari architetti, rifateci le scuole!”. Il testo è una denuncia non solo del problema, seppur grave ed urgente, della fatiscenza in cui versa l’edilizia scolastica italiana ma soprattutto dell’inadeguatezza dei luoghi dell’educazione; è uno sprone a ripensare gli spazi, ad immaginare un uso più versatile delle aule in modo da stimolare l’ascolto e la concentrazione dei bambini ed evitare di costringerli per ore in scomodi bianchi, limitando la loro libertà e fantasia.

Questo invito ad agire viene raccolto da Renzo Piano, progettista pragmatico e convinto sostenitore del ruolo sociale dell’architettura, che elabora, lavorando in stretta sinergia con chi la scuola ed i ragazzi li vive quotidianamente, le linee guida per i futuri istituti italiani.

Quella pensata da Piano, Lorenzoni e Crepet è una scuola di ispirazione montessoriana, in cui l’educazione avviene non solo tramite le parole ma anche attraverso le esperienze che il bambino fa nell’ambiente che lo circonda, che deve quindi essere ricco e stimolante.

L’articolazione spaziale della scuola che farei 

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In immagine: Complesso scolastico “Petrocelli” in località Romanina (Roma) di Herman Hertzberger e Marco Scarpinato. Foto © Duccio Malagamba

Dal punto di vista spaziale “la scuola ideale” è concepita su tre livelli di cui il piano terra rappresenta il punto di contatto tra l’edificio e la città; è quindi sollevato rispetto al terreno, in modo da essere permeabile e trasparente.

In esso sono presenti la palestra, l’auditorium, i laboratori – bottega: spazi di carattere collettivo appartenenti all’intera comunità che consentono alla scuola di “vivere per molte più ore rispetto a quelle richieste dalla didattica”. Questi prendono luce da un giardino interno al centro del quale è situato un grande albero che, con colori e profumi che cambiano al variare delle stagioni, insegna ai ragazzi la mutevolezza della vita e la necessità del rinnovamento.

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In immagine: “La corte degli alberi”, Nuova Scuola Primaria a Cenate Sotto (Bergamo) di Tomas Ghisellini. Il progetto è uno dei vincitori della II edizione del Premio Fondazione Renzo Piano. Foto © Tomas Ghisellini Architetti

Le classi, una per ogni fascia di età tra i 3 e i 14 anni, sono collocate al primo piano, luogo della didattica. In esso le aule si affacciano sulla corte comune, ad eccezione di quelle per i bambini più piccoli che si aprono invece su un giardino privato. I corridoi, finalmente spogliati della mera funzione di collegamento, non sono più angusti luoghi, stretti e lunghi, ma ampi punti di incontro tra grandi e piccoli.

All’ultimo livello c’è il tetto, luogo del proibito e della fantasia, da cui guardare il mondo da prospettive diverse. Su questo grande terrazzo, ombreggiato tramite pergolati, i bimbi scoprono le attività manuali, grazie ad un orto in cui coltivare gli ortaggi; i laboratori di astronomia, botanica e scienze danno volto e forma a quello che è riportato sui libri, una macchina eliotermica consente di catturare l’energia solare mentre un telescopio permette di guardare pianeti e galassie: perché nemmeno il cielo deve rappresentare un limite alla creatività dei bambini.

A fare da connessione ai tre livelli c’è la biblioteca/mediateca o, come preferisce definirla l’architetto Piano, la “torre dei libri”, che si alza dal piano terra fino al tetto. Aperta a tutti, è il luogo della cultura e della memoria, perché oltre ai libri, sia cartacei che virtuali, vengono conservati i disegni e gli altri lavori degli alunni.

Renzo Piano per la “scuola che farei” ha realizzato un vero e proprio prototipo, un modello in scala 1:200 condiviso con la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’Istruzione a fine settembre nel corso di un incontro a Palazzo Giustiniani, sede di G124, gruppo di lavoro (6 architetti, 3 uomini e 3 donne) sulle “periferie e la città che sarà” creato dall’architetto e interamente finanziato con il suo stipendio di Senatore a vita.

Inizialmente era stato pensato per la riqualificazione dell’ex area Falck di Sesto San Giovanni (Milano) ma si è presto trasformato in un riferimento per i nuovi edifici scolastici.

La scuola come modello di sostenibilità

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In immagine: Nido di infanzia a Guastalla di Mario Cucinella, realizzato con materiali naturali o riciclati a basso impatto ambientale. Foto © Fausto Franzosi

Dal punto di vista costruttivo l’edificio è pensato in legno, a basso consumo energetico ed alimentato tramite fonti rinnovabili, in cui per il riscaldamento e il raffrescamento viene sfruttata l’energia geotermica mentre quella elettrica è prodotta tramite impianti fotovoltaici.

Per educare bambini e ragazzi al rispetto della natura e al risparmio delle risorse infatti, la scuola stessa deve essere un esempio di sostenibilità e occasione continua di apprendimento; è necessario quindi spiegare loro che l’edificio che li accoglie non ha causato disboscamento bensì ha dato vita ad una nuova foresta, perché per ogni metro cubo di legno utilizzato un nuovo albero è stato piantato. In questo modo potranno capire a fondo la bellezza e le potenzialità di questo materiale leggero, antisismico, profumato e forse ancora oggi troppo sottovalutato.

Architettura in legno vuol dire più boschi

Riqualificare le periferie grazie alle scuole

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In immagine: Il progetto di Renzo Piano per la riqualificazione dell’ex area Falck di Sesto San Giovanni (Milano), il più grande recupero urbanistico d’Europa. 

Ultima ma non meno importante caratteristica è la collocazione: la scuola di Renzo Piano non poteva non essere in periferia. Secondo il Senatore a vita infatti, il “rammendo” delle periferie è la grande sfida di questo secolo, una sfida non solo architettonica ed urbanistica ma soprattutto sociale.

Bisogna smettere di costruire non-luoghi in cui il centro non è più centro e la campagna ancora non si configura come tale; basta edificare in maniera dissennata ed irrazionale. E’ necessario cominciare a recuperare e trasformare l’esistente, restituendo alle periferie la dignità che gli spetta; e non c’è modo migliore per restituire questi “spazi grigi” alle città se non con la creazione di luoghi per l’istruzione perché, come dice lo stesso Piano, si può scegliere di non visitare un museo ma tutti hanno il diritto e il dovere di andare a scuola.

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La seconda vita dei padiglioni dell’Expo 2015

Dal 31 ottobre, con la chiusura dell’esposizione universale ospitata da Milano per quest’anno, è partita la trasformazione dell’area, che diventerà una cittadella universitaria, ed un parco dell’innovazione: ivi saranno ospitate non solo facoltà scientifiche della Statale di Milano, ma anche un gruppo di aziende scientifiche e tecnologiche. Al momento mancano sia i progetti che i finanziamenti per la realizzazione, ma vi è un’unica certezza: circa il 40% dell’area, che in totale ricopre 1,1 milioni di metri quadri, sarà convertita in un parco urbano.

Che ne sarà delle numerose strutture allestite appositamente per l’evento?

Entro il 30 giugno 2016 tutte le strutture saranno smontate, lo spazio espositivo sarà utilizzato per la prossima Triennale di Architettura, a cura di Claudio De Albertis, da aprile a settembre.

Per la maggior parte, i padiglioni verranno smantellati per essere ricostruiti altrove:

Il Barhain, l’Azerbaijan e gli Emirati Arabi hanno annunciato che rimonteranno ognuno nel proprio Paese la struttura, riutilizzandola per scopi differenti; il Principato di Monaco donerà la struttura per scopi umanitari, utilizzandolo in Burkina Faso come sede della Croce Rossa; altri Stati abbatteranno quanto costruito, riconvertendolo in materiale da recuperare come ferro o legno;

Alcuni Paesi pensano di devolvere parte dell’arredo in beneficienza: il Padiglione cinese, disegnato dall’architetto Daniel Libeskind, venderà mettendole all’asta le 4 mila mattonelle, aventi forma di squame di drago, che rivestono l’edificio, come una pelle: il denaro così ricavato verrà utilizzato per la sistemazione dell’area intorno al Guangrenwang Temple, il tempio taoista dei 5 draghi, nella provincia dello Shanxi. 

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La stessa Expo spa potrebbe decidere di regalare alcune sedute o elementi di arredo, a favore di enti o associazioni. D’altra parte, nelle linee guida, cui hanno aderito tutti i Paesi partecipanti ad Expo, si stabilisce che “l’80 per cento dei materiali con cui sono stati fatti i padiglioni sia riciclato dopo l’Esposizione”.

Ci auguriamo dunque di cuore che la sostenibilità che ha condotto l’esposizione come un fil rouge resti tale anche nella pratica concreta, rendendo sostenibile l’intero evento, a vantaggio di persone realmente bisognose e comunque con un’impronta ecologica, che non sia impattante sull’ambiente, per il benessere di tutti noi esseri umani.

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Possibilità di riutilizzo di un vecchio iPhone

Qual è la motivazione che ci spinge a cambiare smartphone? I primi mesi che seguono la presentazione di un nuovo smartphone top di gamma, sono sempre un po’ critici; c’è chi aspetta almeno un paio di generazioni prima di cambiarlo e chi appassionato di tecnologia non aspetta nemmeno l’ufficializzazione della data di commercializzazione per andare a mettersi in fila davanti ai punti vendita.

Le pubblicità, gli articoli e le pagine internet ti invogliano in ogni caso ad abbandonare il tuo “vecchio” smartphone funzionante – che a seguito di continui aggiornamenti ha iniziato ad essere più lento, anche per svolgere le operazioni quotidiane più comuni – e acquistare il nuovo oggetto del desiderio dal costo leggermente spropositato.

Ma cosa fare dunque del vecchio dispositivo? Quest’ultimo infatti è dotato di display, fotocamera, processore di ultima generazione (o quasi) e sarebbe un vero peccato riporlo nel dimenticatoio. Le sue caratteristiche tecniche, utilizzate continuamente fino a poco prima, ora potrebbero essere sfruttate per compiti più semplici, come permetterci di leggere un ebook, farci da radiosveglia, da gps o addirittura da controllo domotico per la nostra abitazione.

Qui di seguito sono riportate alcune idee di riutilizzo del vostro iPhone oramai vetusto.

Riutilizzo degli iPhone: idee per la casa

Le operazioni che possiamo fare in casa con il nostro vecchio iPhone sono tantissime. La maggior parte di queste, necessitano di un collegamento all’alimentazione elettrica, e a lungo andare potrebbero portare la batteria a una sollecitazione evidente.

Possiamo dunque iniziare dalla sveglia, quella che ci fa alzare al mattino e ci permette di arrivare puntuali a lavoro o ad un appuntamento. La maggioranza dei possessori di uno smartphone utilizzerà quella del sistema operativo, dovendo lasciare inevitabilmente acceso il dispositivo anche di notte. iReadyO è una radiosveglia che permette di alloggiare al suo interno iPhone 4, 4S, 5 e 5S; Questa ci potrà svegliare con le canzoni della nostra playlist personale o potrà essere utilizzata durante il giorno come player musicale come le più note Dock Station di Bose, Jbl, Belkin…

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Un altro sistema molto utile in casa, è la domotica. Il nostro vecchio iPhone può diventare la centralina che comanderà tutte le periferiche posizionate nella nostra abitazione. Disponendo il dispositivo su un muro, e alimentandolo dalla vicina presa elettrica, possiamo accedere ai diversi servizi che il sistema ci offre, come alzare/abbassare le tapparelle, controllare l’intensità luminosa delle luci, chiudere le serrature o riprodurre la musica tramite bluetooth in diverse stanze della nostra casa.

Esistono poi produttori di sistemi di vigilanza e termostati che possono essere controllati con il nostro iPhone. Le videocamere intelligenti, previa registrazione della sagoma del viso, riconoscono chi accede in un’area e avvisano in caso di intrusioni; il termostato, invece, dialoga continuamente con lo smartphone e permette di controllare in remoto la temperatura e l’orario di accensione/spegnimento del sistema di riscaldamento

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Il vostro vecchio iPhone può anche diventare una telecamera che controlla e veglia sul vostro bebè con Cloud Baby Monitor. Quest’app, invia notifiche in caso di rumori provenienti dalla camera da letto, controlla il respiro e permette di cantare una ninna nanna, in diretta, tramite video.

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Se per qualche ragione invece siete a lavoro e avete dimenticato il vostro mouse, nessuna paura, ci sono alcune applicazioni che ci vengono in soccorso reinventando il trackpad del computer e mettendo a disposizione con esso, anche una tastiera

Un decennio fa circa, un noto brand introdusse sul mercato un cellulare che avrebbe dovuto spopolare tra i giovani videogiocatori. Così non fu, e pochi anni dopo, gli smartphone diedero una svolta a questo mercato introducendo molti degli strumenti di utilizzo comune al loro interno. Con agende, blocco note, calendario, libreria personale e molto altro, si iniziarono a soddisfare anche le richieste della generazione più giovane attraverso l’introduzione di videogiochi che a distanza di quasi otto anni, non hanno nulla da invidiare a quelli presenti su console.

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Per venire ulteriormente incontro al popolo videogiocatore, la ion ha prodotto l’Ion iCade Mobile Game Controller, una manopola nella quale è possibile inserire il proprio iPhone convertendolo in una console portatile. Per aumentare il numero e la tipologia di giochi, l’utente può andare su iemulators e scaricare decine di giochi trasformando il proprio dispositivo in un vecchio game boy o un mini coin-op.

Riutilizzo degli iPhone: idee outdoor e per lo sport

Fuori casa il vostro iPhone può essere utilizzato per una molteplicità di funzioni, dalle più comuni come utilizzo su social network, chat o chiamate su skype, per leggere un ebook in viaggio o articoli precedentemente salvati a casa, per guide offline se siete in vacanza, o addirittura come memoria aggiuntiva sulla quale trasferire immagini e video per non rimanere mai a corto di spazio sulla memoria flash del vostro dispositivo principale. Ovviamente potete usarlo anche lettore mp3 o come modem hotspot, e in caso di surriscaldamento, è sempre un dispositivo che avete deciso di rimpiazzare con uno di nuova generazione. Tutte queste funzioni a lungo andare logorano la batteria e la durata del vostro dispositivo principale, quindi perché non cercare di preservarla leggermente?

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Su appStore si trovano numerosissime app per il fitness. Il tuo vecchio iPhone può diventare un contachilometri che geotagga i tuoi spostamenti in bicicletta misurando calorie, velocità e tempi della tua escursione. Se sei un amante del footing, puoi riporre il tuo vecchio smartphone in una classica fascia da braccio per poter godere della tua musica durante il tuo allenamento quotidiano, senza preoccuparti di bagnarlo o impregnarlo di sudore.

Ultima cosa, da non sottovalutare, può anche essere la rivendita. In genere i modelli che alle spalle hanno una sola generazione, sono molto appetibili sul mercato.

E voi cosa ne farete del vostro vecchio iPhone?

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La seconda vita di Expo 2015. Il futuro dell’area espositiva

Oltre 20 milioni di visitatori hanno in questi mesi varcato le soglie di Expo Milano e calpestato gli oltre 400 mila metri quadrati di area espositiva, allestita tra aree a verde, padiglioni e strutture di servizio. Solo alcune strutture, tra cui Palazzo Italia e l’Albero della Vita, e le aree a verde resteranno sul luogo mentre i padiglioni verranno spostati.

Molti padiglioni hanno pubblicizzato la loro “seconda vita” già dall’inizio dell’avventura Expo, spiegando come verranno riciclati, smontati, riutilizzati o trasferiti. Ma come verrà riutilizzata l’intero sito espositivo di Expo Milano 2015? 

LA PROPOSTA PER L’UTILIZZO DELL’AREA DELL’EXPO 

Tra Luglio e Agosto di quest’anno Agenzia del Demanio e Cassa Depositi e Prestiti hanno presentato a Regione Lombardia e Comune di Milano un dossier che presenta il progetto di futuro utilizzo dei terreni dell’Expo Milano 2015. Il dossier contiene i riferimenti ad alcune situazioni in cui si è riqualificata un’area di ampie dimensioni come per esempio il progetto Adleshof a Berlino e Silicon Roundabout a Londra.

Il progetto prevede tre macro aree: la cittadella universitaria, un parco tecnologico e un centro di servizi pubblici.

  • La cittadella universitaria ospiterebbe i locali dell’Università Statale, oggi collocati in via Celoria, dedicati alle facoltà scientifiche.
  • Il parco tecnologico vedrebbe collocato un polo di ricerca agroalimentare e il Crea, Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’economia agraria.
  • La cittadella dei servizi potrebbe ospitare invece diverse realtà pubbliche come Vigili del Fuoco, Agenzia delle Entrate, Archivio di Stato e altri servizi del Comune di Milano.

La proposta così formulata prevede un investimento totale di oltre un miliardo di euro. Il trasferimento dei locali universitari richiede all’incirca 540 milioni di euro, di cui metà coperti dal polo universitario. La realizzazione della cittadella dei servizi costerà oltre 200 milioni di euro, di cui una parte arriveranno dal risparmio dei canoni di locazioni dei locali che oggi ospitano i medesimi servizi.

Tutte le aree a verde presenti durante l’esposizione verranno mantenute.

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RIUTILIZZO AREA EXPO: LE IDEE DEL PUBBLICO

Su questo tema Corriere della Sera e Oxway, una delle prime piattaforme italiane di intelligenza e critica collettiva, hanno reso disponibile una piattaforma online nella quale dal 16 al 26 Ottobre, chiunque ha potuto esprimere la propria proposta.

Sono state oltre 500 le proposte caricate sulla piattaforma da oltre 1000 utenti iscritti tra imprenditori, architetti e ingegneri, liberi professionisti e pubblico comune. Le proposte pervenute sono state le più varie: molti hanno presentato l’idea di realizzare un polo universitario o un polo tecnologico. Altri hanno proposto l’idea di istituire un’area museale o una fiera mondiale a tema alimentare. Altri ancora avanzano la possibilità di realizzare strutture sportive.

I trenta migliori partecipanti, valutati sia della proposta progettuale che dei commenti su quelle di altri utenti, verranno premiati da una giuria di giornalisti della Redazione del Corriere della Sera.

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La seconda vita di EXPO 2015. Che ne sarà di padiglioni e aree verdi?

Expo ha chiuso i battenti. La manifestazione internazionale, che ha venduto oltre 20 milioni di biglietti in tutto il mondo, ha definitivamente terminato di accogliere visitatori.

Molti sono state le notizie di questi ultimi mesi, molti i servizi televisivi concentrati sui più vari aspetti di Expo: dalla ideazione ai costi, dal numero di consensi alle critiche, dai concept dei singoli padiglioni agli aspetti puramente organizzativi e di gestione.

Si dimentica a volte di parlare della seconda vita di Expo. Dove finiranno le strutture costruite? Che ne sarà delle aree a verde piantumate? Come sarà riutilizzata l’area espositiva? Quanto spreco di risorse e materiali sarà evitato?

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Sostenibilità: le linee guida di Expo

La direzione di Expo ha emanato, prima dell’apertura, in concomitanza con l’ideazione dei vari padiglioni delle linee guida per la sostenibilità delle strutture. In questo documento vengono trattati diversi aspetti della progettazione dei diversi padiglioni a partire dal consumo di suolo e di energia, dall’utilizzo di materiali sostenibili fino ad arrivare al fattore dismissione e riutilizzo.

Nel testo pubblicato vengono fatti precisi riferimenti a norme internazionali che prediligono la progettazione in ottica della futura dismissione ovvero progettare elementi e strutture avendo ben chiaro fin dall’inizio come queste verranno poi smontate, demolite o riutilizzate.

Vengono fornite inoltre indicazioni concrete come la limitazione nell’utilizzo di sigillanti o adesivi, poi di difficile smaltimento, o la documentazione fotografica delle fasi costruttive al fine di un più agevole smontaggio qualora le diverse parti poi non fossero più visibili ad opera conclusa.

Nelle linee guida si legge come ogni Paese sia stato invitato a ideare padiglioni che utilizzino per lo più materiali riutilizzabili, o tramite riciclo post demolizione o tramite spostamento delle strutture in altra sede o con altra destinazione d’uso.

La seconda vita dei padiglioni di Expo 2015

Molti Paesi si sono dimostrati virtuosi nell’adempimento delle Linee Guida emanate da Expo;

la maggior parte degli stati espositori ha mirato al riutilizzo della struttura in altra sede.

Bahrain: il padiglione, progettato dall’architetto Anne Holtrop e dal paesaggista Anouk Vogel, è costruito in pannelli prefabbricati in calcestruzzo bianco. Al termine della manifestazione verrà riportato in patria e trasformato in giardino botanico.

Monaco: il padiglione Monaco verrà trasportato in Burkina Faso per diventare la sede della Croce Rossa della città di Loumbila.

Regno Unito: il padiglione, costituito per la parte predominante da un grande alveare realizzato con una struttura reticolare in acciaio, diventerà un monumento.

Austria: di difficile spostamento è il padiglione austriaco costituito da un vero e proprio bosco di oltre 12000 alberi. Le piante più grandi, che superano i 15 m di altezza, verranno destinate al comune di Bolzano che rinverdirà un’area periferica della città.

Estonia: gli elementi del padiglione verranno riutilizzati come arredo urbano in patria.

Anche il Padiglione Coca Cola è stato progettato per poter essere riutilizzato come struttura sportiva a Milano.

Altra strada percorsa da alcuni Stati è quella della vendita all’asta delle strutture e degli arredi.

E’ il caso per esempio del Padiglione del Brasile e di quello svizzero che offrono, anche online, al miglior offerente, un pezzo di Expo.

Alcuni padiglioni purtroppo al momento non hanno presentato un piano di riutilizzo o di riciclo (si tratta di Kazakistan, Cina, Germania, Spagna, Thailandia, Qatar, Oman, Uruguay e Corea).

La seconda vita delle aree verdi piantumate

Expo non è costituito solo da padiglioni ma da un moltitudine di strutture ausiliarie e servizi per non parlare delle grandi aree verdi piantumate o a prato presenti sul suolo della manifestazione. 

Il mantenimento delle piante dopo Expo non sarà un problema per via delle caratteristiche del terreno favorevole e della tipologia di piante utilizzate, di cui solo la minima parte di importazione e quindi difficilmente adattabile al clima milanese.

Il Presidente dell’Associazione Mondiale degli Agronomi, in funzione anche di coordinatore del Tavolo della biodiversità di Expo Idee, afferma che la gestione delle aree a verde dopo Expo sarà relativamente semplice. La tipologia di piante comporterà poche operazioni di giardinaggio nella fase di transizione del dopo Expo, che sarà comunque nei mesi invernali. Se anche la fase di smantellamento di Expo e quindi il periodo transitorio che dovrà affrontare la vegetazione sarà lungo non si verificheranno problemi ma anzi verrà favorito il crearsi di uno spazio meno antropizzato e con aumento della biodiversità.

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Sei containers per una comunità sostenibile. Pechino contro l’inquinamento

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Nel distretto di Shunyi, periferia di Pechino, un giardiniere dal nome Niu Jian, ha costruito una casa fatta con sei containers, nella speranza di creare una comunità verde, dove le persone possano condividere un progetto di vita sostenibile, in una città ormai altamente inquinata. Nel giugno del 2014 “The container home” prende vita ed è solo la prima parte del suo piano. 

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“The container home” un’installazione temporanea per istruire i visitatori e diffondere l’idea di una comunità condivisa, tramite visite organizzate e programmazione di workshop. Nel  2016, il suo programma prevede la costruzione di dieci unità familiari, 1000 mq di laboratorio a più piani. Nel 2017 Niu spera di vedere realizzato un complesso di 10.000 mq a più piani per ospitare 100 famiglie, con la possibilità di vendere o affittare le unità. Niu Jian vede il suo lavoro come un tentativo per affrontare il saccheggio delle risorse naturali causato dall’industrializzazione, che ha distrutto, in molte città del mondo, l’equilibrio tra natura ed esseri umani. 

I containers per il progetto 

Il progetto è sostenuto da Sustainable Design Institute of Arts and Science Research Center, della prestigiosa Università di Tsinghua e dal Participatory Community Development Center. Le prerogative di base sono: tempi di costruzione brevi, facilità di montaggio, efficienza energetica e sostenibilità. Gli architetti incaricati sono SE Ding, Wang Wei, KONG Lingchen mentre il team di disegno sostenibile è formato da vari architetti e professori: Liu Xin, HU Yechang, CHEN Weiran, SU Yurong, XU Zhetong, Yang Xu, TU Wanrong.

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Il progetto si compone di sei containers di 20 piedi (6.055 m x 2.435 m x 2.79 m), prefabbricati con porte e finestre, isolamento e alimentatore elettrico. Ogni container rappresenta un modulo base e la combinazione di più moduli dà vita a diverse varianti topologiche. In questo progetto specifico, l’edificio prevede 5 moduli verticali e uno orizzontale, che delimita lo spazio di una corte. La casa comprende tre camere da letto, un ripostiglio, uno spazio/laboratorio con stampante 3D e vari strumenti di taglio, una zona pranzo, la cucina e un bagno. I containers sono stati trasportati sul sito e, in tempi brevissimi, sollevati e installati; in seguito i moduli sono stati giuntati tra di loro e impermeabilizzati, e infine, sono state montate le scale e le porte interne. I sei containers sono costati 180.000 yuan, il trasporto e l’installazione 38.000 yuan, per un totale di 218.000 yuan (31.000 euro).

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Il processo costruttivo è semplice e rapido, non necessita di elevata manodopera o risorse materiali, è a basso impatto acustico e ambientale. Il proprietario si è incaricato della progettazione interna e degli impianti secondo la filosofia del DIY (Do it Yourself).

Gli aspetti sostenibili del progetto

Il progetto adotta una serie di espedienti per ridurre le emissioni e gli sprechi: raccolta delle acque reflue, trattamento e riutilizzo per generare il sistema di acqua riciclata; scarti di cucina, raccolta escrementi, trattamento e riutilizzo per alimentare il sistema di produzione di biogas; pannello solare da 600 watt e turbina eolica da 300 watt per alimentare le luci LED.

Niu Jian e la sua famiglia hanno installato personalmente tubi e lampade LED per la crescita delle piante in cucina. Possono mangiare le verdure che coltivano loro stessi grazie alla parete verde e al giardino di colture biologiche sul tetto. Gli scarti come bucce d’arancia, gusci d’uovo, foglie ecc. vengono polverizzati attraverso un tritarifiuti posto sotto il lavello e confluiscono in una piccola cisterna per il riciclaggio. In bagno, infatti, sono presenti quattro cisterne di plastica. Un serbatoio contiene le acque grigie utilizzate per il risciacquo del wc; un altro raccoglie l’acqua piovana utile per l’irrigazione; gli altri due sono collegati ad apparecchiature per la produzione di gas metano da liquami trattati e rifiuti di cucina. Il gas viene utilizzato per la cottura, mentre i residui solidi e liquidi vengono utilizzati come fertilizzante per le coltivazioni. 

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Niu e la sua famiglia vivranno per due anni in questa casa per sperimentare questo nuovo stile di vita, per capire cosa migliorare nel layout funzionale, nel sistema energetico o per quanto riguarda la manutenzione degli impianti per il verde, al fine di stabilire un insieme di soluzioni costruttive ecosostenibili per  un futuro sviluppo partecipativo comunitario. Liu Xin, professore al Sustainable Design Centre dell’Università di Tsinghua, afferma che nonostante molte persone in Cina abbiano cercato di costruire case ecologiche alimentate da vento e metano, tuttavia il progetto di Niu, è il più coraggioso perché combina, in un unico organismo, trattamento delle acque reflue, roof garden, coltivazione indoor, energia solare ed eolica ecc.

I containers, tutti dipinti di bianco, si distinguono dagli edifici circostanti. Un orto davanti casa e le pareti coperte di piante color pastello. È questo lo scenario, forse un po’ pittoresco, che Niu sceglie, per promuovere l’armonia tra la natura e gli esseri umani.

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Il film più sostenibile del 2015 vince il Green Drop Award

Una terra al limite fra Mongolia e Cina, un paesaggio lacerato da attività estrattive, una popolazione divisa fra pastori e minatori. È il suggestivo sfondo di Behemoth, il destabilizzante film che, denunciando provocatoriamente lo sviluppo insostenibile delle società industrializzate, è il vincitore ad elevata carica emotiva del Green Drop Award 2015.

THE HUMAN SCALE: IL FILM SULLE CITTÀ VIVIBILI

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Il riconoscimento, assegnato alla pellicola più green in concorso nella selezione ufficiale della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, consiste in una goccia soffiata da un maestro vetraio muranese ospitante un pugno di terra la cui provenienza, diversa di anno in anno, è nel 2015 un paese simbolo di siccità quale il Senegal.

Il documentario del pluripremiato regista cinese Zhao Liang secondo la giuria è il film che meglio “interpreta i valori dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile, con particolare attenzione alla conservazione del Pianeta e dei suoi ecosistemi per le generazioni future, agli stili di vita e alla cooperazione fra i popoli”.

Vivendo in una città inquinata come Pechino, egli muove dalla propria esperienza personale per trasmettere allo spettatore, attraverso la dura verità di immagini “in bilico fra poesia e riflessione metafisica”, un insegnamento ambientale traendo spunto dallo scempio che si sta compiendo con l’avanzare delle miniere in Mongolia.

La sequenza di potenti immagini svela nella sua assurda concretezza come lo sfruttamento intensivo dei giacimenti ad opera di imprese cinesi, russe, canadesi stia divorando non solo il paesaggio, ma anche l’antico patrimonio culturale nomade, fatto di capanne tradizionali, tipiche usanze e produzione d’eccellenza di cashmere. Il ricordo della tradizione è ormai solo un lontano canto gutturale mongolo Xöömej che fa da surreale contrappunto alla visione apocalittica dello sbriciolamento in aria delle rocce causato da una deflagrazione.

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La Mongolia è ormai destinata ad una progressiva decadenza: la terra trema inerte al fragore di ogni nuova esplosione che – incurante delle proteste degli sciamani che pregano contro la Booming economy in nome di Tenger, il Cielo onnipotente -, continua con forza diabolica a sventrare le montagne.

La metafora infernale d’altronde permea tutto il film: il titolo stesso “Beixi Moshuo – Behemoth” (Mostro gigante), essendo il riferimento a un’entità mitologica identificabile con il diavolo, ne è sintesi simbolica.

Questa bestia invisibile, in continuità con il repertorio iconografico medievale in cui spesso è rappresentata con una “bocca divorante” dalla natura insaziabile, simboleggia col suo fagocitare le montagne l’ingordigia dell’uomo che nel suo incedere sregolato verso un’industrializzazione senza criteri ha creato un progresso devastante sia dal punto di vista ambientale che sociale. Concretizzandosi nell’insano “inferno in terra” delle miniere, Behemoth continuerà inesorabilmente, nel fragore di trivelle, gru, pale meccaniche e camion, ad inghiottire in alienanti ingranaggi chapliniani l’uomo suo generatore.

“Attraverso lo sguardo contemplativo del film, analizzo le condizioni di vita dei lavoratori e l’insensato sviluppo urbano. È la mia meditazione critica sulla civiltà moderna, in cui si accumula ricchezza mentre l’uomo perisce. […] Il comportamento umano si contraddistingue per follia e assurdità. Non siamo mai riusciti a liberarci dall’avidità e dall’arroganza, così il viaggio a spirale della civiltà si viene a riempire di deviazioni e regressioni”, afferma il regista.

Assurdamente, i pastori che, privati dei terreni su cui allevare i propri capi di bestiame in favore dell’avanzare di nuove miniere, fuggono per salvarsi, portano con sé durante il viaggio i simboli –non essenziali alla vita- del progresso: un uomo trascina una moto, mentre un altro a stento riesce a trasportare una televisione!

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Malinconicamente, la voce narrante che descrive i fotogrammi ricorda: “una volta cantavamo nel sole e nella dolce, gaia, aria. Ma adesso, io mi affliggo per l a terra mandata in frantumi”. E come la montagna viene distrutta, l’immagine ritratta è vista verosimilmente attraverso un vetro rotto. Questa disintegrazione dello schermo è un effetto sorprendente: in realtà si tratta infatti di uno specchio portato sulla schiena dalla voce-guida che nel suo percorso ritrae nel riflesso il dramma.

Lo specchio frantumato diventa una metafora della pluralizzazione, dell’estensione della portata del messaggio non solo al territorio specificamente ritratto dalle immagini, ma universalmente a tutti i paesi industrializzati; il termine Behemoth stesso è d’altronde un probabile pluralis excellentiae, tecnica usata nell’ebraismo per amplificare la potenza di un elemento rendendo il nome al plurale.

I frammenti riflettono un’immagine tanto evocativa nella sua distopica liricità da lasciare senza fiato: viene ritratto di spalle un nudo adagiato su un prato tanto verde da sembrare psichedelicamente irreale, rivolto verso il mondo industriale della miniera sullo sfondo, che inghiottirà con i suoi infernali rumori, le sue nubi di polvere tossica e i suoi colori tetri il bucolico paesaggio in cui vivono i pastori.

Passibile di diverse interpretazioni l’ambigua figura, ripiegata su se stessa in un raccoglimento che ricorda una posizione fetale.

Uomo o donna? Umano o diabolico?

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“Benché i monti gli offrano i loro prodotti e tutte le bestie domestiche vi si trastullino, egli si sdraia sotto i loti, nel folto del canneto e della palude”. Come nell’immagine evocata biblicamente da Giobbe, nella figura distesa sul prato, fra distese di lapidi o fra capanne, forse in realtà si cela il mostro, allegoria del progresso di cui l’uomo è al “tempo stesso vittima e carnefice”, perché “sembra di essere posseduti da una forza mostruosa e invincibile, invece siamo noi a creare questa bestia invisibile. È la nostra volontà.

E’ quindi inevitabile che dove ci sia l’uomo ci sia il mostro; Behemoth è nel male polmonare che divora l’uomo, è nelle ungulate macchine infernali che scavano le rocce, è nelle file di camion che senza soluzione di continuità salgono e scendono senza tregua lungo la spirale dei tornanti che collegano la fonderia e la zona di estrazione, in cui gli addetti lavorano incessantemente e meccanicamente secondo i serrati ritmi di riempimento e svuotamento degli autocarri.

“Gli uomini, le donne, l’ambiente, la natura sono rappresentati come sacrificio in nome di un progresso che, con un colpo di scena finale, si rivela inesistente”. L’illusione di trovare il paradiso, l’aspettativa di vivere quindi un “uscimmo a riveder le stelle” della contemporaneità dopo l’inferno di una vita di duro lavoro sempre svegli in una miniera attiva anche di notte e dopo il purgatorio inflitto dalla fatica e dalla sofferenza delle inevitabili malattie associate al lavoro si disintegra infatti nel momento in cui si svela che l’obiettivo è innalzare senza una razionale pianificazione futuristiche “città fantasma”, investimento dei proprietari delle miniere di carbone nel settore immobiliare.

Paradossalmente, mentre l’inquinamento acustico ed ambientale e la presenza di tante persone in movimento caratterizzano la miniera, queste spettrali distese di asfalto e cemento sono dominate dall’immobilità e dal silenzio e registrano una bassissima densità abitativa.

Ordos è una di tali cristallizzate megalopoli simbolo della contraddizione del capitalismo estrattivo: essa non solo non è la metropoli da un milione di persone per il quale sono stati costruiti grattacieli altissimi, servizi pubblici, monumenti di Gengis Khan conquistatore della zona in passato, ma non è nemmeno una città perché è completamente disabitata.

Ossimoricamente poi, la città in cui viene girato il film significa “Paradiso”.

La metafora infernale

D’altronde vari aspetti del documentario sono, come affermato dal regista, di derivazione dantesca: “nella Divina Commedia, Dante attraversa in sogno l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. In Behemoth ho descritto un’enorme catena industriale, in cui i colori rosso, grigio e blu rappresentano rispettivamente i tre regni danteschi”.

Il rosso infatti è un riferimento non solo al sangue ma anche alla lava dell’inferno, e all’incandescenza delle viscere del sottosuolo delle steppe mongole in cui l’uomo è costretto a lavorare in condizioni insopportabili dalla mostruosa energia maligna; il grigio è il purgatorio di macchie, lividi, bombole e calli su mani segnate dal lavoro dei “musi neri”, che nascosti dietro alle loro inutili mascherine sono ridotti a fantasmi nei gironi infernali delle miniere.

I minatori sono tutt’uno col nero delle particelle di carbone che ne cancella l’identità. Essi non hanno né nome né voce, e i volti sporchi e muti sono svelati in primissimo piano solo dopo un’inquadratura posteriore. “La gente passa tutta la notte a spalmarsi trucco scuro… il risultato non dipende dal loro umore ma da come tira il vento”. Per quanto gli operai possano procedere a una pulizia, essa non potrà essere che superficiale.

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E in ogni caso la polvere continuerà ad essere inalata e a annidarsi nei polmoni, con l’effetto di esporli a gravi rischi di salute come la pneumoconiosi, che costringendoli a letto attaccati a una macchina li conduce all’annichilimento. Le miniere inoltre mietono vittime non solo fra i minatori, ma anche fra coloro che usufruiscono di falde inquinate da sostanze utilizzate per l’estrazione.

“In mezzo alla foresta di lapidi, forse ci sono persone che conosco, o che non ho mai visto, che stanno soffrendo o sono già libere, in questa passiva moltitudine ci sono anime tristi! Non c’è posto per loro, all’inferno!” , afferma nella prima sequenza una voce fuori campo, il Virgilio, che esordisce con un “amid, in the middle” come l’incipit della Divina Commedia dantesca.

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Il viaggio, altro topos ripreso da Dante, è profeticamente l’unica prospettiva per i pastori per sfuggire all’effetto dell’impatto ambientale delle attività estrattive.

Ma mentre in Dante il viaggio è percorso di purificazione e speranza, compiuto dal poeta universalizzando la propria impresa per tutti gli uomini, che espiano i propri peccati ripercorrendone idealmente il viaggio, “nel viaggio dantesco simulato nel film non c’è salvezza, ma insegnamento morale, un monito per gli spettatori di ogni latitudine del globo”. 

Sostenibilità e futuro del cinema

Sensibilizzazione degli spettatori che è un mezzo per diffondere i valori del rispetto ambientale: “il cinema è un veicolo eccezionale di stili di vita e di sensibilità e da diversi anni ormai le tematiche ambientali sono entrate a farne parte; il nostro scopo è valorizzare quelle opere e quegli artisti che lo hanno fatto in maniera più evidente ed efficace”, afferma Marco Gisotti, direttore del concorso.

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L’ottica è quella di produrre film sempre più attenti all’ambiente, orientando le scelte secondo una crescente tensione alla sostenibilità cinematografica: “credo che tutti dovremmo fermarci a riflettere dopo la visione di questo film, che non parla solo della Cina ma di tutti noi. Di come il lavoro e la produzione industriale non siano il fine ma il mezzo. Probabilmente ‘Behemoth’ è il film più politico di tutta la Mostra di quest’anno”.

Inoltre, in occasioni come il Green Day Venice, giornata della sostenibilità nell’industria cinematografica, si discute la possibilità della la creazione di un codice mondiale di produzione di film ecosostenibili per identificare film green sia per i temi trattati che per le modalità di produzione degli stessi (secondo criteri orientati a: minimizzazione dell’impatto ambientale, dell’uso di risorse, dei consumi energetici, delle emissioni e delle distanze, rispetto per la natura, efficacia della gestione dei rifiuti, riutilizzo anziché acquisto di materiale di scena….).

È una direzione che diventerà obbligatoria, perché “sono pochissimi i film che oggi possono sfoggiare certificazioni di produzione ‘green’, ma l’attenzione verso stili di vita più sostenibili è sempre più importante. In futuro un film che voglia raccontare una storia a sfondo ecologico dovrà essere coerente fino in fondo e dimostrare, attraverso adeguate certificazioni, non solo di non aver inquinato, consumato energia, sprecato cibo, ecc., ma anche di aver fatto qualcosa per migliorare l’ambiente”.

Per chi vuole vedere un estratto del film, un link al primo estratto di Behemoth.

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In Svezia alla scoperta di una casa che produce cibo anziché rifiuti

E poi capita che in un giorno d’estate, in vacanza in Svezia viaggiando da Stoccolma a Goteborg, alzi lo sguardo e vedi qualcosa di inaspettato ai bordi del lago Vättern.

Dopo immense foreste verdi e vastissimi campi coltivati, proprio quando inizi a riconsiderare quella che fino ad allora hai sempre creduto potesse essere la definizione di “deserto”, ecco che in questa landa desolata compare una costruzione che ha quasi dell’incredibile: la Uppgränna Nature House, casa auto-sostenibile che produce cibo e nessun rifiuto.

Ristrutturare fienili: un esempio in Tasmania

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Inizialmente si potrebbe non far caso all’eccezionalità dell’opera.  Ma di fatto non è così. Gli svedesi sono maestri di design e di tutto ciò che è ecosostenibile ed ecocompatibile ed hanno quindi realizzato qualcosa di eccezionale.

L’Uppgränna Nature House è un vero e proprio “edificio serra”: un vecchio fienile è stato cioè trasformato in una serra a basso impatto ambientale all’interno della quale persone e piante vivono insieme in armonia e vengono prodotti alimenti in modo sostenibile con un sistema di riciclo dell’acqua a circuito chiuso.

L’opera è dello studio TailorMade Arkitekter che ha progettato la struttura in collaborazione con Living Serra, un gruppo di consulenza che lavora sullo sviluppo di progetti Naturhus eco-compatibili.

L’Uppgränna Nature House unisce il design contemporaneo con l’architettura tradizionale svedese. L’edificio mantiene infatti la classica forma a due spioventi, ma la sua particolarità sta nel fatto che la parte inferiore della struttura con il suo colore rosso, rievoca il fienile e le case svedesi, mentre l’intera parte superiore è realizzata con vetrate isolanti che richiamano un’estetica decisamente più moderna. La serra che si viene così a creare al livello superiore occupa quasi la metà della pianta dell’edificio ed ospita aiuole contenti frutta, fiori e ortaggi, il tutto all’interno di un clima decisamente mediterraneo. Al suo interno trovano posto anche un piccolo laghetto con una cascata e una grande varietà di agrumi.  Il livello inferiore ospita aree ristoro dove la cucina propone piatti vegetariani a base di prodotti coltivati ​​in serra, sale riunioni, spa e camere da letto. 

L’obiettivo è quello di realizzare una casa auto-sostenibile che produce cibo, invece di rifiuti. Inoltre, vivere in una serra dovrebbe incoraggiare uno stile di vita sostenibile e non tossico.

L’Uppgränna Nature House non è collegata a un sistema fognario e riutilizza le acque reflue come irrigazione in un sistema a circuito chiuso. Costruito principalmente in legno, l’edificio è ben isolato e riesce a mantenere un basso impatto energetico grazie alla ventilazione solare e naturale passiva.

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Donne tessitrici del Marocco: un progetto per valorizzare il lavoro artigiano

Sul palco del padiglione dell’Angola, ci sono Pietro Maffio e Fawzia Talout Meknassi, premio Nobel per la pace 2015, responsabile del progetto: “Le donne Tessitrici del Marocco”. 

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Il progetto di Fawzia Talout Meknassi – nato prima del bando Energy Art and Sustainability for Africa lanciato da Expo Milano 2015 ed Eni, volto a valorizzare il continente africano attraverso conferenze, talk show, workshop e spettacoli –  cerca di evidenziare il legame tra l’attività artigiana delle donne marocchine e lo sviluppo ecosostenibile del pianeta. Lo fa principalmente attraverso l’analisi della tradizione di tessitura in Marocco – che potrebbe essere fonte di ispirazione e aiuto per gli altri paesi africani – e la conoscenza della bellezza dei tessuti prodotti in Marocco.

La tradizione della tessitura in Marocco

La tessitura fa parte di un essere vivente dinamico che genera un prodotto autentico e permette di mantenere intere popolazioni. Generazioni di donne si sono susseguite per creare diversi tipi di tessuto, dai più rustici ai più fini; quello che le accomuna è il rito e il rispetto con il quale queste donne si approcciano a questa arte. Ogni tessuto prodotto è unico ed è quasi impossibile riprodurlo; le stesse donne per il rispetto verso il loro lavoro si rifiutano di completare prodotti (abiti, tappeti o tende) che siano copie di altri già presenti sul mercato.

Come l’attività in sé, anche lo strumento utilizzato principalmente dalle donne artigiane del Marocco, il telaio, viene utilizzato e trattato con grande rispetto. Attorno a questo organo vi è un alone di riguardo e di venerazione tanto che il corpo della donna artigiana, prima della tessitura, deve essere purificato. Per la donna il telaio ha una personalità, non deve essere attraversato in segno di rispetto, e il lavoro che le permette di realizzare, tramandato di generazione in generazione, è sacro, va oltre alla sola tessitura e oltre la sua vita.

Il progetto di Talout Meknassi sulle tessitrici marocchine

Con Il libro “Il segreto delle donne artigiane del Marocco”, la Meknassi cerca di trasmettere l’energia del rito della tessitura e l’atteggiamento con il quale queste donne si approcciano a quest’arte utilizzando risorse che il territorio le mette a disposizione, per il telaio (semplici rami o pezzi di legno che gli alberi hanno messo loro a disposizione e non da legno trattato o lavorato) o per la stoffa (lana di pecora che è cresciuta mangiando erba irrigata naturalmente da acqua di fiume).

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La tessitura è la storia delle donne fatta dalle donne, nel tempo delle donne. Le tessitrici tramandano questa cultura e queste tradizioni per mantenere, nelle loro pratiche quotidiane, un equilibrio ambientale (che è anche il tema di Expo Milano 2015) in armonia con la Terra e con il loro territorio, apprezzandone la generosità e il legame mistico e spirituale che si è creato. Le donne, attraverso il loro rituale e la loro arte, riescono a coniugare la loro attività alle risorse territoriali trasmettendo un legame strategico che riporta ad un fattore di sviluppo sostenibile.

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Il progetto della Meknassi, presenta tre pilastri fondamentali:

  1. il primo, la base, è l’approccio a questa arte che varia a seconda della localizzazione geografica e della tipologia del lavoro che la donna artigiana compie. La donna che lavora con il telaio, come la donna che cucina o che si occupa della casa, canta e danza come se stesse seguendo un rito. Il suo lavoro in questo modo si impregna di arte, quella ricercata, quella che diventerà patrimonio universale e conferirà all’umanità la stessa gioia che prova un’artigiana a svolgere il suo lavoro.
  2. il secondo, sono gli atelier di iniziazione alla tessitura e spiegano il legame con il cibo. I prodotti che restituisce la terra del Marocco, sono naturali e saporiti; la loro semplicità e la loro genuinità li contraddistingue in tutto il mondo: il pane, l’olio di oliva, il miele, l’olio di argan.
  3. il terzo, in costruzione, e si effettua giorno per giorno, è la conferenza e il dibattito per mantenere e valorizzare le nuove generazioni. Troppo spesso gli europei si lamentano dell’immigrazione nei loro paesi da parte del popolo africano, ma questi non si rendono conto che un africano emigra con molta dignità e con l’aspettativa di migliorare la propria vita.

La donna artigiana lavora principalmente per un ritorno economico ma le giovani generazioni sognano un futuro e uno sviluppo migliore e si sentono costretti ad emigrare abbandonando il proprio territorio e la propria cultura. Le donne tessitrici compongono il 90% dei tre milioni di artigiani a reddito attivo in Marocco, e con i proventi di questi tre milioni di lavoratori, vivono oltre dieci milioni di persone. La donna artigiana è un esempio da seguire perché trasmette al mondo i suoi prodotti e la sua arte costituendo parte attiva nell’economia e nello sviluppo ecosostenibile del territorio africano.

Il progetto di Fawzia Talout Meknassi, vuole farsi carico oggi di alcune problematiche da risolvere legate ad aspetti della tradizione e delle esigenze di mercato. Troppo spesso ancora oggi, i prodotti di queste attività sono il risultato di uno sfruttamento del lavoro e del reddito delle donne artigiane. Un altro problema è dato dalla dimensione dei prodotti di queste attività artigianali. I grandi tappeti di una volta, oggi, sono difficili da collocare poiché le dimensioni delle abitazioni degli odierni nuclei familiari sono minori. L’associazione cerca quindi di formare le donne artigiane alla produzione di manufatti più piccoli che possano essere commercializzati più facilmente, senza lasciare in secondo piano l’autenticità del prodotto.

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Infine, ma non meno importante, bisogna trasmettere la tradizione e la cultura di queste tessitrici, questo know how alle nuove generazioni e ai figli di queste artigiane, come è successo fino ad oggi, insegnare l’importanza di quest’attività che ha reso possibile l’avanzamento culturale e il mantenimento di questo equilibrio ecologico posto alla base di un’economia sostenibile.

Spesso si pensa che uno sviluppo sostenibile non debba essere necessariamente legato alla presenza di una forte cultura di base. Il lavoro delle donne artigiane del Marocco invece ci insegna che è proprio la cultura ad essere alla base dello sviluppo sostenibile della loro società.

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Le città europee più vivibili per gli anziani. L’analisi di Arup

Se ne parla da tanto e non è una novità: la popolazione sta invecchiando e questo rappresenta una delle sfide più ardue dei prossimi anni, da affrontare a livello economico, sociale e di pianificazione urbanistica.

Secondo le stime, nel 2050 il 70% delle persone abiterà in città, di queste il 22% avrà un’età superiore ai sessantacinque anni, una percentuale più alta di quella dei bambini sotto i quindici anni, per la prima volta nella storia. Come affrontare questo cambiamento? Le città saranno in grado di dare una risposta, trovare una soluzione giusta e cogliere le opportunità?

PROGETTARE SMART CITY ANCHE PER GLI ANZIANI

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Il report di Arup per città a misura di anziani

A queste domande prova a rispondere il report di Arup, “Shaping Ageing Cities”, in collaborazione con Help Age International, Intel ICRI Cities e Systematica. Shaping Ageing cities è uno studio che riguarda il solo territorio europeo e confronta i dati di dieci città: Parigi, Londra, Dublino, Madrid, Lisbona, Amsterdam, Bruxelles, Milano, Berlino e Copenaghen.

Si parte dai dati anagrafici della popolazione che riguardano la percentuale degli over sessantacinque, le condizioni di vita, la concentrazione nelle varie aree e si approda ai dati progettuali, cioè la presenza o meno di programmi e progetti dedicati agli anziani, in un’ottica di pianificazione urbana.

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L’indagine ha evidenziato un aumento smisurato della popolazione anziana, negli anni dal 1991 al 2012, soprattutto in Spagna, Portogallo, Germania e Italia, conseguentemente a un forte calo delle nascite. Al contrario, il nord e in particolare la Danimarca, hanno una popolazione notevolmente più giovane.

Altro dato interessante è quello che rileva il passaggio abitativo dai centri rurali alle zone urbane, dove gli anziani vivono soprattutto in centro città a Lisbona, ma a Milano e Madrid preferiscono le zone dell’hinterland.

Dunque come si fa a costruire o, meglio, trasformare una città a misura di anziani? Arup fornisce alcune linee-guida meritevoli di particolare attenzione.

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L’importanza del verde

Innanzitutto la presenza di spazi verdi è di fondamentale importanza per quelle persone avanti con gli anni, non solo perché costituiscono una risorsa per il benessere psico-fisico, ma soprattutto perché rappresentano luoghi di socializzazione e d’incontro dove trascorrere il tempo libero e trovare refrigerio nei mesi estivi. Londra si classifica al primo posto con l’11,2% di aree verdi, mentre Milano è il fanalino di coda con solo il 6%.

L’accessibilità

L’accessibilità è un altro aspetto da non sottovalutare: una città attenta è quella che cura la manutenzione di strade e infrastrutture, non risparmia su panchine e coperture alle pensiline dei bus, offre una segnaletica evidente e chiara, zone di sosta e di ristoro, percorsi pedonali senza ostacoli e facilmente percorribili.

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Efficienza dei trasporti pubblici

Anche il buon funzionamento del trasporto pubblico, utilizzato maggiormente da chi giovane non è più, è indice di una città efficiente. Una città virtuosa deve garantire collegamenti frequenti e ben distribuiti, oltre che accessibili economicamente; Londra e Dublino sono in prima fila con la “best practice” del libero accesso ai meno abbienti e agli anziani.

Adeguatezza delle abitazioni

Infine, ogni abitante ha diritto di vivere dignitosamente; se in età più giovane le condizioni abitative soddisfavano certi parametri, questi potrebbero non valere più in età avanzata, perché con il passare degli anni le esigenze abitative di ogni essere umano cambiano. Deve quindi poter essere facile per questa fascia di età trasformare gli spazi domestici in luoghi più idonei ai nuovi bisogni.

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Rigenerazione urbana: la passeggiata sul lago riqualifica il paesaggio

Sul lago di Paprocany, in Polonia, non troppo lontano dal confine con la Repubblica Ceca, troviamo uno degli ultimi interventi di rigenerazione urbana dello studio RS+. Situato in un contesto paesaggistico ancora fortemente boschivo, ad eccezione di alcune aree adibite a colture agricole, il lago si trova vicino alla cittadina di Tychy. Ed è qui che gli abitanti del luogo trascorrono la maggior parte del loro tempo libero.

LA VALORIZZAZIONE PAESAGGISTICA DEL LUNGOMARE DI RIGA

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L’area, precedentemente, era solamente una distesa di prato utilizzata dai pescatori, nonostante il fatto che nel quartiere, che costeggia il lago, vi fossero già alcuni centri di ricreazione e sport. Lo scopo su cui si basa il progetto è quello di creare uno spazio di aggregazione che, al contempo, permette il recupero e la valorizzazione di questo bene paesaggistico. Quindi, analizzando gli usi del territorio nel corso del tempo e immaginando quali risvolti potesse avere l’intervento su un’area simile, RS+ ha disegnato una passeggiata che si snoda lungo la distesa d’acqua. Una passeggiata di legno che si insinua sulla superficie dell’acqua, in alcuni punti, per poi addentrarsi nella terra erbosa. Si crea, così, un filo continuo tra terra ed acqua che delinea percezioni differenti del paesaggio naturale.

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La promenade nasce anche con l’intento di incentivare l’attività ludica-sportiva dell’area: la passeggiata lignea, utilizzata come pista ciclabile e pedonale, in determinati punti, degrada verso il filo d’acqua trasformandosi in tribuna, finalizzata ad ospitare il pubblico durante le manifestazioni sportive che verranno organizzate. Ulteriori elementi, legate alle attività sportive, sono la spiaggia in sabbia e la creazione di aree dotate di attrezzi da palestra.

L’attenzione per il contesto e la volontà di valorizzare le sue forme è stato il punto di partenza per la scelta dei materiali: materiali naturali che si adattassero al luogo, come legno, terra, ed erba. Sfruttando la morfologia del terreno e costruendo, dove fosse necessario, terrapieni e strutture lignee studiate ad hoc, si forma così un percorso a più livelli, offrendo visuali, scorci ed usi dello spazio sempre diversi. Per definire l’area pedonale sono state usate delle panchine e delle ringhiere, realizzate in materiale resinoso, mentre per le aree adibite a palestra all’aperto sono stati utilizzati degli inerti minerali granulosi.

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Un attento studio della luce, nella sua disposizione, nelle sue forme e nelle scelte tipologiche, rende questo progetto ancor più attento: LED, fonti ad alto risparmio energetico, scandiscono i diversi elementi e disegnano i percorsi ed i contorni sull’acqua. Grazie all’uso della luce si delinea uno spazio perfetto da vivere in sicurezza, anche di sera.

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Nelle prime settimane, dopo l’apertura, nonostante il clima sfavorevole, è diventato un luogo spesso visitato, diventando un nuovo luogo di incontro e aggregazione, nonché di svago. La passeggiata sul lago Paprocany è, senza dubbio, testimone del fatto che un’attenta rigenerazione urbana possa favorire il benessere umano, apportando un’evidente valorizzazione del territorio anche dal punto di vista sociale.

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Floating Flower Garden, il giardino sospeso interattivo

Magica, sorprendente, onirica: è l’installazione “Floating Flower Garden” proposta dal TeamLab, collettivo giapponese guidato da Toshiyuki Inoko. I visitatori sono invitati a passeggiare in un eden botanico di 2300 orchidee fluttanti per diventare un tutt’uno con la natura. Petali, fiori e pistilli sbocciano silenziosi, mutando di ora in ora ed si animano alla presenza degli spettatori. Il giardino interattivo e in continuo movimento permette un’immersione totale, un percorso onirico in cui perdersi e ritrovare l’origine del tutto. Mazzi di orchidee colorano lo spazio, mentre profumi delicati e una musica soft risvegliano i sensi. L’installazione gioca un forte impatto sulle emozioni umane, un insieme di piaceri atavici che si fondono per suscitare sentimenti sereni e ricordare la potenza armonica della natura. Le orchidee Phalaenopsis, importante dall’Olanda, possono essere sospese in aria perchè piante in grado di assorbire acqua e nutrienti, senza aver bisogno del suolo. Collegate ad un sistema digitalizzato, si sollevano e si abbassano captando i movimenti dei presenti.

IL QR CODE NASCOSTO IN GIARDINO

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La cortina, infatti, scende lentamente quando i sensori avvertono l´avvicinarsi dello spettatore, perchè ne diventi il protagonista nello spazio emisferico creatosi. Se più persone si avvicinano le une alle altre, la cupola si allarga in un unico spazio. Appena, però ci si allontana dalla nicchia, i fiori scendono ricreando il denso baldacchino, dolcemente ondulato e coloratissimo.

L´installazione interrativa è stata presentata a Miraikan presso il “Museo nazionale di Tokyo della scienza emergente e dell’innovazione”, trasportata e nuovamente sospesa in occasione del Paris Design Week. La mostra, conclusasi a maggio, ha  riscosso un comprensibile successo. Come non rimanere estasiati dalla lenta danza di fiori in ascesa e discesa?

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Flowers and I are of the same root, the Garden and I are one´

(Io e i fiori abbiamo la stessa radice, il Giardino e io siamo un tutt´uno)

Il collettivo si ispira ad un Kōan zen, la breve fiaba “Il fiore di Nansen” che narra l’incontro tra un maestro e il suo discepolo. Come racconta Toshiyuki Inoko, nel XIII secolo un monaco zen lascia il suo ritiro meditativo sulla montagna alla ricerca del risveglio. Un giorno indica con il dito un fiore in un giardino: “Noi e tutto ciò che ci circonda siamo fatti della stessa sostanza, abbiamo la stessa origine”.

La morale della metafora buddista, trasposta nel labirinto botanico 3d dal collettivo, è che ogni ricerca delle origini ci riporta sempre alla natura. La serenitàe la meraviglia suscitata dal giardino pensile, prova la necessità di ripristinare il senso di unità con la natura e ricucire le relazioni con l´ecosistema

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Il giardino “sotto-sopra” presentato dal gruppo dei tecno-artisti, curatori anche dell´installazione nel padiglione giapponese dell´Expo, gioca sull´interazione tra emozione, tecnologia digitale e natura. La sorprendente, ma comunque artefatta, rappresentazione edenica, come tutte le installazioni di TeamLab, si rifà ai paesaggi mozzafiato esistenti in natura, come i tunnel di alberi intrecciati, i canopi di bamboo, le cortine di glicine e di ciliegi.

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L’orfanotrofio sostenibile in Kenya dal cuore tedesco

Questa storia inizia con un giovane tedesco, Torsten Kremser, che, insoddisfatto della sua vita nonostante un lavoro sicuro e ben pagato, parte dalla Germania e comincia a viaggiare in Asia e soprattutto in Africa.

La seconda protagonista della vicenda è una donna africana di sessantadue anni, Mama Dolphine, il cui dolore per la perdita di due dei suoi figli nello stesso anno la spinge a riprendere in mano la sua vita. Si convince che dalle tragedie può nascere qualcosa di buono e che la sua esistenza ha ancora un senso, così progetta di creare un luogo accogliente per i numerosi orfani di Kisian, la città in cui vive, in Kenya.

ARCHITETTURA IN AFRICA: UN ORFANOTROFIO IN MALI

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COME È NATO KORANDO EDUCATIONAL CENTER

Torsten e Dolphine s’incontrano casualmente; lui rimane talmente commosso e colpito dalla sua storia che decide di aiutarla con la realizzazione dell’orfanotrofio, una struttura ecosostenibile capace di educare e offrire vitto e alloggio ai bambini orfani di genitori vittime di AIDS.

Si attiva subito lanciando una prima campagna di raccolta fondi con la quale ricava settecento euro che servono per costruire le prime cupole a basso costo, mattoncino su mattoncino, fornendo ai bambini i primi alloggi e una classe con lavagna e computer.

Nasce così il Korando Educational Center.

Ma servono più fondi per completare il progetto, perciò il giovane tedesco dal cuore grande fonda Cheap Impact, un’organizzazione umanitaria per finanziare questo centro educativo che strizza l’occhio all’ambiente.

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IL PROGETTO DELL’ORFANOTROFIO SOSTENIBILE

L’orfanotrofio s’ispira a un progetto di Steve Areen in Thailandia e si compone di strutture a quattro cupole, costruite da otto volontari alla volta, che contengono camere, bagni e una zona centrale usata come soggiorno e area sociale.

L’acqua è riscaldata tramite pannelli fotovoltaici che alimentano anche il sistema d’illuminazione a led. Le acque grigie dei bagni e della cucina irrigano il bosco e grandi lucernari favoriscono la ventilazione e un’ottima illuminazione naturale. Si prevede inoltre di costruire un digestore di biogas per trasformare il letame delle mucche e dei maiali in combustibile per cucinare.

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I bambini e i ragazzi ospitati oggi nel Korando Educational Center sono 205 e tutti frequentano la scuola, fra loro vi sono anche piccoli maltrattati e abusati dai loro parenti ai quali il centro offre un rifugio sicuro.

Dice Torsten: “Abbiamo dato al centro una struttura unica. Lo scopo è attirare l’attenzione del mondo e ricevere supporto per rendere questo spazio sempre più ecosostenibile e farlo crescere per ospitare sempre più bambini vittime di violenze”.

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Casa Natura: si alimenta con una serra che genera cibo e calore

Nel sud della Svezia, non lontano dal lago Vättern, in un contesto tipicamente agricolo e caratterizzato da strutture rurali rosse con persiane bianche, sorge la “Uppgrenna Naturhus”, ovvero “casa Natura”.

Costruire un’architettura efficiente ed accessibile, con spazi per la riflessione e l’apprendimento, in cui si possa influenzare il comportamento dei residenti verso un atteggiamento più affine ai concetti sostenibili e di valorizzazione del paesaggio, questi sono i presupposti che hanno portato alla realizzazione della “Uppgrenna Naturhus”.

UN FIENILE FIAMMINGO DIVENTA UFFICIO

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Il progetto di “Casa Natura”, di Tailor Made Arkitekter, conferisce una nuova connotazione a questo luogo tipicamente rurale: dove prima un vecchio fienile rosso veniva utilizzato per il deposito dei macchinari agricoli, sorge un nuovo edificio, adibito a conferenze, seminari, ristorante e spa.

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Il progetto si ispira al concetto architettonico locale “Naturhus” sostenuto sin dal 1970 da Bengt Warne. Warne era, infatti, convinto che vivere in una serra potesse esprimere la quarta dimensione dell’architettura, dove il tempo fosse scandito dai flussi infiniti del sole, della pioggia, del vento e del suolo, in cui l’architettura venisse influenzata dall’ambiente e da esso trovasse giovamento.

La “casa Natura” si compone di tre parti: due più prettamente architettoniche costituite da un edificio isolato e da una serra che si estende verso l’esterno con delle terrazze protette, ed una terza impiantistica per il riciclaggio delle acque reflue.

Oltre 200 metri quadrati, dei 520 metri quadrati totali, è occupato dalla serra, che si articola in ampie terrazze che si aprono verso il lago Vättern, offrendo un contatto diretto con l’ambiente naturale. La serra, oltre a costituire il cuore della casa, permette di preriscaldare l’aria necessaria per la ventilazione della casa e offre la possibilità di coltivare piante che necessitano di un clima meno aspro.

All’interno è possibile pranzare,  le sale riunioni occupano un soppalco di legno sotto il tetto di vetro spiovente, una seconda terrazza inferiore è circondato da piantine, mentre una sala per trattamenti benessere e una camera degli ospiti si trovano nella base di legno della struttura, che è parzialmente affondata in un pendio erboso.

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Inoltre, si è ricercato di recuperare i nutrienti provenienti dalle acque reflue (azoto e fosforo), valutando i parametri qualitativi dell’acqua. Grazie a questo, infatti, la serra permette di creare una rete locale chiusa di riciclo dei rifiuti delle acque reflue, cosicché non si debba richiedere l’allacciamento alla rete fognaria comunale.

La ricerca di creare una struttura autosufficiente è ulteriormente incentivata dal fatto che alcuni dei prodotti serviti nell’area ristoro siano coltivati direttamente nella serra: grazie allo sfruttamento delle sostanze nutritive dei liquami prodotti dalla struttura stessa. Si crea, così, un sistema che genera cibo e calore, piuttosto che consumarlo.

L’esterno ispirato alle tradizionali fienili svedesi: porticati semplici, persiane bianche e muri rivestiti con pannelli rossi in legno, ma qui, il filo continuo si spezza e la facciata assume dinamicità intervallandosi tra superfici opache e vetrate, in modo da ridurre la dispersione del calore quando la casa non viene utilizzata.

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Vivere in una serra incoraggia uno stile di vita sostenibile e non tossico e chiarisce il perché non si debba emettere sostanze inquinanti nell’ambiente, preferendo la trasformazione dei prodotti e delle risorse in base alle proprie necessità.

Il progetto nasce con l’intento di realizzare una casa autosufficiente che produca cibo, invece di rifiuti.  Una case che genera energia, invece di solo consumo e, in definitiva, spazi che inducano alla riflessione e all’apprendimento di un comportamento più affine al contesto in cui un determinato progetto di colloca.

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Sistemi strutturali in legno senza colle

La crescente attenzione alla sostenibilità in campo architettonico negli ultimi anni ha avvicinato i progettisti a materiali e tecnologie rispettose dell’ambiente. In quest’ottica, il legno ha subito una riscoperta come materiale da costruzione sostenibile nonché strutturalmente molto valido ed esteticamente gradevole. È stato stimato che ogni metro cubo di legno utilizzato in sostituzione di un altro materiale strutturale permette di ridurre le emissioni di anidride carbonica in atmosfera di un valore medio di circa 1,1 t.

Sposando la filosofia della sostenibilità, Marlegno ha brevettato TAVEGO®, un sistema costruttivo in legno che prevede elementi orizzontali e verticali (solai e pareti) costituiti da tavole in legno sovrapposte ed unite tra loro senza utilizzare collanti sintetici, ma solo connessioni meccaniche lignee o d’acciaio.

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I PUNTI DI FORZA DEL SISTEMA STRUTTURALE IN LEGNO SENZA COLLE

I punti di forza di questo sistema strutturale sono tanti. Ne analizziamo i principali, legati sia all’ambiente, sia alle caratteristiche strutturali che funzionali del prodotto.

1. La materia prima è locale e certificata PEFC

Il legno utilizzato per le pareti ed il solaio che costituiscono il sistema, proviene unicamente da foreste italiane certificate PEFC. Il PEFC è il “Programme for the Endorsement of Forest Certification”, cioè un programma che sostiene la certificazione delle foreste ed è il più diffuso al mondo. Il programma garantisce che i legnami provengano esclusivamente da foreste gestite in maniera legale e sostenibile e non da tagli illegali o da interventi irresponsabili in grado di impoverire e addirittura distruggere le risorse forestali).

Le foreste da cui deriva il legno impiegato per il sistema strutturale rientrano tutte all’interno di un raggio di 220 km. Questo, oltre a favorire la filiera economica locale, consente di ridurre i consumi energetici legati al trasporto ed i relativi impatti sull’ambiente.

2. L’assenza di collanti

I collanti non fanno parte di questo sistema strutturale, tenuto insieme da connessioni meccaniche esclusivamente lignee e metalliche. L’assenza di collanti ha un triplice vantaggio:

– riduce l’utilizzo di collanti chimici derivati dal petrolio;

– evita l’impiego di presse molto dispendiose dal punto di vista energetico e necessarie per l’attivazione dei collanti;

– rende gli ambienti in cui il sistema è installato, molto più salubri.

3. Ingombri minimi

Il sistema strutturale in  legno TAVEGO® non necessita di grosse sezioni per essere stabile. Bastano pochi centimetri di tavole unite tra loro per assicurare la necessaria resistenza strutturale. La bellezza del materiale naturale lasciato a vista consente di risparmiare centimetri (spesso preziosi) di rifiniture.

4. Il ciclo di vita

Il sistema è sostenibile durante tutto il suo ciclo di vita, non solo in fase di produzione ed utilizzo. Infatti può essere sia riutilizzato mantenendo intatti i pannelli, sia smontato ed i singoli pannelli che compongono il pacchetto utilizzati singolarmente, sia smaltito in una centrale a biomassa, dove contribuirà alla produzione di energia pulita.

PARETE PORTANTE E SOLAIO PREFABBRICATO IN LEGNO

Gli ementi principali del sistema costruttivo TAVEGO® sono una parete portante ed un solaio prefabbricato, entrambi prodotti esclusivamente sfruttando connessioni meccaniche.

La parete portante

La parete portante in legno di abete rosso e bianco, è prodotta in quattro diverse tipologie, divisibili in due principali categorie: le pareti costituite da pannelli verticali (Cross-) e quelle costituite da un nucleo verticale (Stack-).

Del primo tipo sono prodotte Cross-D e Cross-S, rispettivamente assemblate con tasselli in legno di faggio e viti in acciaio inox amagnetiche, entrambi con spessore minimo di 120 mm. Nel secondo tipo rientrano Stack-W e Stack-G, entrambe costituite da un nucleo ligneo verticale, l’una rivestita con perlinato, l’altra con fibrogesso

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Il solaio prefabbricato

I solai prefabbricati TAVEGO® sono costituiti da tavole in legno affiancate tra loro. Anche il solaio, come le pareti, è assemblato unicamente con connessioni meccaniche (viti in acciaio inox autenitico), senza collanti. Le dimensioni dell’elemento costruttivo non sono standard e variano per adattarsi alle esigenze dell’utente. Sono disponibili diversi profili: classico, smussato, scanalato o alternato.

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