Una casa-rifugio per i volontari del parco

All’interno di Noorderpark, un parco di 5900 acri a nord di Utrecht (Paesi Bassi), gli architetti del cc-studio di Amsterdam hanno sostituito il vecchio edificio presente dal 1966 con un alloggio semplice e affascinante. La casa funge da luogo di riposo per i volontari che curano il parco, di rifugio in caso di maltempo e di ricovero per le attrezzature da giardinaggio. Secondo la normativa locale, la costruzione del fabbricato non necessita di alcun permesso di costruire perché rispetta il volume e la funzione dell’alloggio originario. Gli architetti l’hanno progettato in modo da poter essere visibile solo nelle immediate vicinanze, minimizzando al massimo l’impatto visivo.

UN RIFUGIO IN LEGNO PER LA GUARDIA FORESTALE

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La casa-rifugio, di 35 mq con un’altezza di 3,5 m, è composta da un ripostiglio, un bagno/lavanderia, una zona pranzo con focolare ed un angolo relax con letto. Il cuore della casa è costituito da un corpo centrale che accoglie una stufa a legna e delle sedute. Questo elemento regge la struttura di supporto del tetto e per sua stessa conformazione, ricorda la forma di un albero.

Il tetto e le pareti dell’edificio destinato ai volontari sono costituite da un involucro in alluminio color verde mentre l’interno prevede l’utilizzo di materiali naturali ed è rivestito quasi interamente in legno compensato. La cucina e il camino sono alimentati dalla legna raccolta all’interno del parco. Sia le pareti che il tetto sono caratterizzati dalla presenza di aperture finestrate che creano un forte collegamento con l’ambiente esterno. Ma a smaterializzare i confini tra interno ed esterno sono sicuramente le due porte scorrevoli ad angolo. Aprendosi completamente offrono l’opportunità di godere del prato, di instaurare un rapporto intimo e diretto con la foresta circostante.

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L’ambiente naturale, è l’unico protagonista della scena. Così succede che passeggi all’interno del parco e scopri un rifugio, quasi un nascondiglio inaspettato. Forse è proprio questo uno dei connotati dell’architettura, di piccola o grande scala: stupire lo spettatore che osserva un’opera adeguata al contesto, in cui la forma risponde alla funzione in un modo giusto e naturale.

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Biblioteche sostenibili: la Stevens Library è la prima NZEB degli USA

Lo studio WRNS ha recentemente presentato il primo edificio scolastico in California e in assoluto la prima biblioteca negli USA a raggiungere la certificazione NZEB – Net Zero Energy Building dall’ILFI – International Living Future Institute: partecipando al programma Living Building dello stesso istituto, la Stevens Library alla Sacred Heart School ha dimostrato di generare in un anno solare molta più energia di quella consumata, integrando sapientemente e in modo stimolante diversi sistemi di produzione e risparmio di energia.

NEARLY ZERO ENERGY HOTEL

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Il progetto della biblioteca sostenibile

La Stevens Library è uno dei quattro nuovi edifici del nuovo campus scolastico assieme al Performing Arts Building, al Lower Classroom Building e all’Upper Classroom Building. Lo studio WRNS ha redatto anche lo stesso masterplan del campus della Sacred Hearts School e quando la direzione ha chiesto al team di creare uno spazio che riflettesse i propri valori della consapevolezza sociale, della sostenibilità e della comunità, questo ha pensato di progettare la biblioteca con il duplice scopo di risparmiare energie e risorse educando, allo stesso tempo, la comunità circa l’importanza della tutela ambientale: il design semplice e flessibile della struttura mette in evidenza i legami tra architettura e natura, energia e acqua, funzionando sia come modello di sostenibilità che come risorsa educativa volta al coinvolgimento e alla sensibilizzazione dei fruitori in una cultura del risparmio energetico e delle risorse.

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Strategie di risparmio energetico

Il progetto della biblioteca integra numerosi sistemi tecnologici attivi e passivi associati a diverse strategie di risparmio energetico. Tra queste troviamo un impianto fotovoltaico, che fornisce tutta l’energia elettrica necessaria; un sistema di sensoristica e monitoraggio delle condizioni ambientali interne per minimizzare l’uso di energia elettrica per l’illuminazione; un impianto meccanico di ventilazione ad alta efficienza; impianti di distribuzione dell’acqua a flusso ridotto, per limitare i consumi, associati ad un impianto di raccolta dell’acqua piovana, immagazzinata in un serbatoio da 3.000 litri e successivamente riutilizzata per l’irrigazione degli spazi verdi del campus; un involucro ad elevate prestazioni realizzato con un isolamento rigido esterno a cappotto; diversi collettori solari e solar tubes per la massimizzazione dell’utilizzo di luce naturale all’interno degli ambienti. I consumi sono stati monitorati per un intero anno solare, da un team dell’ILFI che ha stimato un utilizzo di circa 24.934 kWh a fronte di una produzione di 56.811 kWh, consegnando pertanto alla rete elettrica circa 32.417 kWh.

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Cultura ecologica

Nel tentativo di portare in primo piano il tema della sostenibilità, i sistemi energetici della Stevens Library vengono mostrati all’utenza come un vero e proprio strumento formativo: il serbatoio di immagazzinamento dell’acqua piovana è direttamente accessibile dalla libreria e viene utilizzato come fonte primaria per l’irrigazione di un frutteto e degli spazi verdi che vengono curati e manutenuti dagli stessi studenti. I sistemi di gestione delle acque piovane e delle acque grigie sono visibili attraverso una finestra a libro vetrata, composta da sette diversi pannelli, dando la possibilità di utilizzare il sistema per scopi formativi: a questo scopo, alcuni disegni sul tema del ciclo dell’acqua e sulle disponibilità della risorsa potabile sono integrati sui singoli elementi vetrati.

All’interno degli ambienti altre informazioni sui temi energetici e ambientali, vengono fornite con l’ausilio di display e dell’infografica fornendo ai bambini, ai loro genitori e a tutti i visitatori, dati ed informazioni sul funzionamento degli impianti fotovoltaici, sui trends di utilizzo quotidiano dell’energia e sull’uso consapevole delle risorse.

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La struttura NZEB è composta da sette diverse aree di lavoro, due sale riunioni, due laboratori tecnologici, una sala conferenze, uffici e una biblioteca open space: la configurazione degli ambienti è totalmente flessibile grazie ad una pavimentazione e ad arredi modulari mobili che possono essere facilmente spostati al fine di rimodulare gli spazi secondo le mutabili esigenze.

Tutti gli ambienti dell’edificio contribuiscono indistintamente alla formazione di una cultura energetica, aiutando i giovani a riconoscere fin dalle minori età le buone e le cattive abitudini rispetto ai temi ecologici.

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La fabbrica dismessa diventa uno spazio dove lavorare è un piacere

Un marchio estone, produttore di abbigliamento per bambini, ha deciso di trasferire i suoi uffici di Tallin in una ex fabbrica di epoca sovietica e ha affidato il progetto allo studio KAMP Arhitektid.

Il cliente aveva posto come obiettivo della riqualificazione la trasformazione del volume asettico e austero del vecchio edificio dismesso in un ambiente accogliente. Affascinare i dipendenti e renderli più produttivi grazie a uno spazio stimolante e attirare i visitatori dallo spettacolo intravisto oltre le finestre: i progettisti dovevano creare un “parco giochi” per adulti.

LUOGHI DI LAVORO: UNA SCALA VERDE PER NUOVI SPAZI IN UFFICIO

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I quasi 1.100 metri quadrati, una vertiginosa altezza massima di 8 metri, della fabbrica dismessa sono stati effettivamente rivoluzionati, creando una vera e propria oasi, tra stanze di legno e alberi, quasi una rigogliosa foresta permanente. Ora la vegetazione è artificiale e raggiunge le travi del tetto, ma presto sarà sostituita da vere piante, in attesa che assumano una adeguata dimensione.

La vecchia fabbrica, completamente in disuso, ha ripreso vita e ora, percorrendo in estensione il grande spazio multipiano si possono incontrare sale riunioni, zone relax, uffici più piccoli adibiti a spazi di lavoro. Il “paesaggio” si snoda a più livelli, ma i materiali usati, i colori e le forme taglienti creano un ambiente unico e armonioso.

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Le grandi vetrate permettono l’ingresso di un notevole quantitativo di luce interna, diffusa e amplificata grazie all’inserimento di lucernari zenitali in copertura. Anche il sistema di ventilazione e riscaldamento è stato sostituito per essere più efficace per la nuova configurazione dell’ambiente di lavoro.

La fila di grandi lampade da tavolo, a richiamo del lavoro sartoriale, accompagna il percorso lungo i corridoi, ingannando l’occhio dell’osservatore che, in un divertente gioco prospettico, si accorge della loro altezza (quasi 3 metri) solo quando passa sotto. Gli arredi funzionali al ricovero della merce venduta sono molto discreti e si inseriscono perfettamente nel racconto architettonico; solo i pomelli degli armadi, ritagliate a forma di bambino suggeriscono la categoria di vendita del marchio.

Il progetto, molto affascinante, sembra voler avvallare la tesi dell’architetto Michele de Lucchi (autore dell’Unicredit Pavilion a Milano) che, al Salone dell’Ufficio di quest’anno, ha voluto sintetizzare nella sua installazione “La passeggiata” una nuova idea di ambienti di lavoro: ricchi di stimoli, facilitatori di incontri, diversificati e confortevoli. Dove lavorare è prima di tutto un piacere.

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caption: © Design: KAMP Arhitektid

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Come sarà la Sagrada Familia nel 2026?

L’opera più famosa dell’architetto catalano, Antoni Gaudí, potrebbe essere completata nel 2026, dopo 144 anni dalla posa della prima pietra. Il cantiere della Sagrada Familia aprì nel 1882 con il progetto dell’architetto Francisco de Paula del Villar; solo nel 1883 fu affidato a Gaudí con il compito di proseguirne l’opera, che però ne modificò radicalmente il progetto con il suo inconfondibile stile. Artista ossessionato dalla perfezione e architetto delle “forme impossibili”, visse nella cattedrale come eremita dedicandole i suoi ultimi 14 anni di vita. Con la sua morte, avvenuta accidentalmente nel 1926, ha lasciato un’ingombrante eredità a scultori, artisti ed architetti. A quel tempo, infatti, erano state innalzate soltanto una facciata e una torre, ma già si preannunciava come il più grande capolavoro della cristianità.

Chiese del XXI secolo: Shigeru Ban e la cattedrale in cartone

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Nel 2026, in occasione del centenario della morte di Gaudì, il responsabile dei lavori di costruzione, l’architetto Jordi Faudi dichiara che la maggior parte dei lavori della Sagrata Familia saranno conclusi; rimarranno pochi elementi decorativi e finiture. Quindi, la chiesa dovrebbe essere interamente ultimata entro il 2030 o il 2032.

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Dopo aver costruito le sei immense torri, ed in particolare la Torre di Gesù Cristo sormontata da una croce per un’altezza di 173,5 m, diventerà edificio di culto più alto d’Europa. Supererà di 10 m la cattedrale di Ulm, in Germania. Se però si considera l’altezza interna, il primato dell’edificio più alto rimarrà ancora alla cattedrale di San Pietro a Roma.

La Sagrada Familia avrà 18 guglie dedicate a diverse figure religiose di varie altezze a seconda della gerarchia, quattro per gli evangelisti, una per ogni apostolo e due, che supereranno le altre, in onore della Vergine Maria e Gesù.

La lentezza dei tempi di cantiere e l’incertezza delle date di completamento sono causate non solo dalle difficoltà costruttive e dalla vastità dell’opera, ma anche da motivi economici. La costruzione è finanziata esclusivamente da donazioni private e dal ricavato dei biglietti dei visitatori, che in media si aggira sui 13 e 20 milioni di euro per anno.

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Il video di un minuto e mezzo, pubblicato dai costruttori della basilica, ci proietta nel futuro mostrandoci la configurazione finale a lavori ultimati. La costruzione, consacrata basilica da papa Benedetto XVI il 7 novembre 2010, continua a dividere cittadini, esperti ed ammiratori a causa dell’enorme budget speso, del progetto troppo articolato, e ovviamente dell’impossibilità di intercettare la visione originale dell’architetto catalano.

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Dio non aveva fretta di vederla finita, aveva ironizzato Gaudì… ed in effetti tempi di realizzazione sono davvero considerevoli. Comunque ora la basilica si avvia alla sua fase finale, grazie alla caparbia dei sostenitori, alle donazioni ma soprattutto alle nuove tecniche costruttive e alle stampanti 3d, che sembrano aver accelerato la costruzione. “Lavorare sui disegni di Gaudì in 2d non ha senso dal punto di vista architettonico” dichiara Jordi; lo stesso Peter Sealy, ricercatore di Harvard conferma la Sagrada Familia è così complessa che è quasi impossibile disegnare dei progetti. Gaudí, infatti, ha lasciato praticamente solo un sistema geometrico di superfici rigate e un metodo di lavoro per tradurre queste geometrie in modelli di gesso. Molti dei modelli di Gaudì furono distrutti dagli anarchici durante la guerra civile spagnola, ma i frammenti superstiti possono ora essere digitalizzati con gli scanner 3d.

E infine: “le intenzioni progettuali di Gaudí possono essere decodificate da questi modelli digitali, che possono poi essere utilizzati per lo sviluppo del design e la fabbricazione, con pietra da taglio e cemento versato in stampi realizzati in scala 1:1 “.

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Il centro sociale in tessuto e cemento costruito dalle donne cambogiane

Costruire insieme alla gente comune, alla popolazione in difficoltà, a chi si renda disponibile al co-working anche nel campo dell’edilizia si può, almeno secondo gli architetti dell’Orkidstudio e di StructureMode.

La prima è un’organizzazione umanitaria che si occupa di design e di architettura focalizzandosi in modo particolare sui benefici che si possono apportare alla vita dei bambini e delle comunità che vivono in condizioni di povertà e di profondo disagio fisico e sociale. Secondo Orkidstudio, infatti, nuove tecniche costruttive possono costituire la strada da perseguire per colmare il profondo divario che separa la nostra civiltà da quei popoli ancora impegnati a combattere contro la fame.

Structure Mode, invece, è una società di ingegneria che ha fatto della sperimentazione nel campo delle costruzioni la sua ragione di vita. Il campo d’azione di questa associazione varia dal ferro al cemento, dal legno al vetro. I materiali vengono di volta in volta declinati in modo tale da dare vita a prodotti innovativi e decisamente proiettati su un futuro in cui la tecnologia avanza, ma i costi diminuiscono.

ARCHITETTURA PER LE DONNE: UN CENTRO DI ACCOGLIENZA PER LE VITTIME DI VIOLENZA DOMESTICA

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Il centro sociale costruito dalle donne cambogiane

Il palcoscenico su cui le due organizzazioni si sono esibite, coinvolgendo nella “recita” anche la popolazione femminile locale è la Cambogia. Il tema? Costruire un centro sociale urbano nel cuore della città di Sihanoukville. Il materiale? Strano ma vero, il cemento.

L’edificio, infatti, è stato realizzato attraverso dei getti di calcestruzzo contenuti da una particolare cassaforma: uno stampo in tessuto leggero.

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Ad uno scheletro in legno sono stati fissati degli ampi teli in tessuto e, al loro interno, è stato rilasciato il getto di calcestruzzo. Una tecnica semplice nella realizzazione, ma altamente complessa nello studio della struttura che ne sarebbe derivata. Il compito di analizzare la costruzione è spettato agli ingegneri di Structure Mode, che si sono serviti di prove fisiche in laboratorio oltre che di appositi software al computer, come Oasys GSA Suite.

Gli schizzi tridimensionali e la collaborazione con un attivo team di sarte ha permesso di individuare la forma che avrebbe concesso la realizzazione dell’edificio progettato e di quantificare i tempi necessari all’edificazione, corrispondenti ad appena otto settimane.

Il nuovo centro comunitario sorge nel punto in cui si trovava il Bomnong L’Or, una struttura che, nel cuore di Sihanoukville, ha sempre fornito assistenza e sostegno alla popolazione locale, impegnandosi nell’alfabetizzazione dei bambini e nella definizione di spazi multiuso per gli adulti. Il sovraffollamento del centro, tuttavia, lo aveva reso un luogo non propriamente adatto allo svolgimento delle attività lavorative, oltre al fatto che le condizioni di illuminazione e di ventilazione risultavano poco efficienti.

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L’edificio costruito insieme alle donne cambogiane segue la tipologia delle palafitte, sistema costruttivo locale. Al posto del legno, però, la struttura è caratterizzata da cemento e tessuto. Utilizzare il legno, infatti, avrebbe precluso al progetto di rientrare nell’ambito della “sostenibilità”, in quanto il materiale, nella zona, proviene principalmente da disboscamento privo di controllo.

Il centro presenta le aule per l’insegnamento e l’apprendimento al piano superiore e una serie di spazi aperti dove i bambini, principali destinatari del progetto, hanno la possibilità di relazionarsi tra di loro e di dedicarsi ad attività ricreative. Al suo interno trovano spazio anche una sala computer, uffici amministrativi e locali di servizio.

L’orientamento della struttura è stato studiato per permetterle di sfruttare i venti stagionali provenienti dal Golfo della Thailandia. Le ampie coperture, invece, hanno come obiettivo quello di evitare il surriscaldamento degli ambienti a causa dell’intensa luce solare durante l’estate. Questa strategia rende l’edificio completamente passivo e rappresenta, nel panorama dell’architettura sostenibile, un esempio molto importante di costruzione di qualità a prezzi contenuti.

Uno dei meriti maggiori del progetto, la cui realizzazione si è conclusa nel settembre del 2015, è stato quello di mixare in un’unica soluzione tecniche costruttive tradizionali e materiali moderni. Si tratta di una vera e propria finestra aperta sul co-working, sulla collaborazione e sull’intenzione di creare insieme un posto migliore dove trascorrere il proprio tempo

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La Torre dei Cedri: il nuovo bosco verticale di Stefano Boeri a Losanna

Il nuovo bosco verticale, dopo quello di Milano, sorgerà a Losanna: il progetto per la costruzione della nuova torre verde è stato affidato allo studio Stefano Boeri Architetti (Sba): si tratta di una costruzione sostenibile che verrà realizzato nel comune di Chavannes-Près-Renens, in un aggregato urbano della cittadina svizzera. “La Torre dei Cedri”, così denominata, nasce da un progetto che ha visto la collaborazione di Stefano Boeri con Buro Happold Engineering e con l’agronoma Laura Gatti; il costruttore svizzero Bernard Nicod renderà possibile la concretizzazione dell’edificio.

IL BOSCO VERTICALE DI BOERI A MILANO

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Gli alberi del nuovo bosco verticale di Boeri

La torre di Losanna ospiterà 100 alberi di cedro, 6 mila arbusti e 18 mila piante di differenti tipologie, per un’altezza complessiva di 117 metri; saranno inoltre presenti alberi di cedro appartenenti a quattro differenti specie. L’edificio sarà caratterizzato da forme ortogonali della facciata, che ospiteranno al loro interno terrazze ricche di verde, per un totale di oltre 24.000 piante.

Il nuovo edificio sarà il primo al mondo con l’80% di alberi sempreverdi, e potrà in questo modo fornire un importante contributo ecologico sia per fissare le polveri sottili che per assorbire anidride carbonica e produrre ossigeno; il significativo apporto fornito per la riduzione dell’inquinamento urbano nasce dalla possibilità di combattere l’effetto isola di calore e di favorire la biodiversità nell’ambiente urbano.

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Le caratteristiche de La Torre dei Cedri

La Torre dei Cedri sarà costituita da 36 piani, per un totale di circa 3.000 mq ed ospiterà non solo residenze private, ma anche una palestra ed un ristorante panoramico. Intorno al grattacielo, il progetto prevede un centro commerciale ed un parco, circondato da una serie di palazzine più basse.

Stefano Boeri ha affermato: “Con La Torre dei Cedri avremo la possibilità di realizzare un edificio sobrio e insieme di grande importanza nel paesaggio di Losanna. Un’architettura capace tra l’altro di innestare una significativa biodiversità di specie vegetali nel cuore di una importante città europea”.

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Renzo Piano e “la scuola che farei”: l’edilizia scolastica sarà sostenibile

Situata in periferia, articolata intorno ad un albero e con la “torre dei libri” (ovvero la biblioteca) che corre a tutta altezza fino al terrazzo: è “la scuola che farei , un modello di scuola sostenibile che Renzo Piano, architetto italiano di fama internazionale e Senatore a vita, ha elaborato insieme al maestro e pedagogo Franco Lorenzoni e allo psichiatra e sociologo Paolo Crepet.

In copertina: Il disegno in cui Renzo Piano rappresenta la sua scuola ideale

Il progetto de “la scuola che farei”

 Il progetto è stato ideato a marzo 2015 quando proprio il maestro Lorenzoni pubblica un articolo dal titolo provocatorio “Cari architetti, rifateci le scuole!”. Il testo è una denuncia non solo del problema, seppur grave ed urgente, della fatiscenza in cui versa l’edilizia scolastica italiana ma soprattutto dell’inadeguatezza dei luoghi dell’educazione; è uno sprone a ripensare gli spazi, ad immaginare un uso più versatile delle aule in modo da stimolare l’ascolto e la concentrazione dei bambini ed evitare di costringerli per ore in scomodi bianchi, limitando la loro libertà e fantasia.

Questo invito ad agire viene raccolto da Renzo Piano, progettista pragmatico e convinto sostenitore del ruolo sociale dell’architettura, che elabora, lavorando in stretta sinergia con chi la scuola ed i ragazzi li vive quotidianamente, le linee guida per i futuri istituti italiani.

Quella pensata da Piano, Lorenzoni e Crepet è una scuola di ispirazione montessoriana, in cui l’educazione avviene non solo tramite le parole ma anche attraverso le esperienze che il bambino fa nell’ambiente che lo circonda, che deve quindi essere ricco e stimolante.

L’articolazione spaziale della scuola che farei 

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In immagine: Complesso scolastico “Petrocelli” in località Romanina (Roma) di Herman Hertzberger e Marco Scarpinato. Foto © Duccio Malagamba

Dal punto di vista spaziale “la scuola ideale” è concepita su tre livelli di cui il piano terra rappresenta il punto di contatto tra l’edificio e la città; è quindi sollevato rispetto al terreno, in modo da essere permeabile e trasparente.

In esso sono presenti la palestra, l’auditorium, i laboratori – bottega: spazi di carattere collettivo appartenenti all’intera comunità che consentono alla scuola di “vivere per molte più ore rispetto a quelle richieste dalla didattica”. Questi prendono luce da un giardino interno al centro del quale è situato un grande albero che, con colori e profumi che cambiano al variare delle stagioni, insegna ai ragazzi la mutevolezza della vita e la necessità del rinnovamento.

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In immagine: “La corte degli alberi”, Nuova Scuola Primaria a Cenate Sotto (Bergamo) di Tomas Ghisellini. Il progetto è uno dei vincitori della II edizione del Premio Fondazione Renzo Piano. Foto © Tomas Ghisellini Architetti

Le classi, una per ogni fascia di età tra i 3 e i 14 anni, sono collocate al primo piano, luogo della didattica. In esso le aule si affacciano sulla corte comune, ad eccezione di quelle per i bambini più piccoli che si aprono invece su un giardino privato. I corridoi, finalmente spogliati della mera funzione di collegamento, non sono più angusti luoghi, stretti e lunghi, ma ampi punti di incontro tra grandi e piccoli.

All’ultimo livello c’è il tetto, luogo del proibito e della fantasia, da cui guardare il mondo da prospettive diverse. Su questo grande terrazzo, ombreggiato tramite pergolati, i bimbi scoprono le attività manuali, grazie ad un orto in cui coltivare gli ortaggi; i laboratori di astronomia, botanica e scienze danno volto e forma a quello che è riportato sui libri, una macchina eliotermica consente di catturare l’energia solare mentre un telescopio permette di guardare pianeti e galassie: perché nemmeno il cielo deve rappresentare un limite alla creatività dei bambini.

A fare da connessione ai tre livelli c’è la biblioteca/mediateca o, come preferisce definirla l’architetto Piano, la “torre dei libri”, che si alza dal piano terra fino al tetto. Aperta a tutti, è il luogo della cultura e della memoria, perché oltre ai libri, sia cartacei che virtuali, vengono conservati i disegni e gli altri lavori degli alunni.

Renzo Piano per la “scuola che farei” ha realizzato un vero e proprio prototipo, un modello in scala 1:200 condiviso con la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’Istruzione a fine settembre nel corso di un incontro a Palazzo Giustiniani, sede di G124, gruppo di lavoro (6 architetti, 3 uomini e 3 donne) sulle “periferie e la città che sarà” creato dall’architetto e interamente finanziato con il suo stipendio di Senatore a vita.

Inizialmente era stato pensato per la riqualificazione dell’ex area Falck di Sesto San Giovanni (Milano) ma si è presto trasformato in un riferimento per i nuovi edifici scolastici.

La scuola come modello di sostenibilità

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In immagine: Nido di infanzia a Guastalla di Mario Cucinella, realizzato con materiali naturali o riciclati a basso impatto ambientale. Foto © Fausto Franzosi

Dal punto di vista costruttivo l’edificio è pensato in legno, a basso consumo energetico ed alimentato tramite fonti rinnovabili, in cui per il riscaldamento e il raffrescamento viene sfruttata l’energia geotermica mentre quella elettrica è prodotta tramite impianti fotovoltaici.

Per educare bambini e ragazzi al rispetto della natura e al risparmio delle risorse infatti, la scuola stessa deve essere un esempio di sostenibilità e occasione continua di apprendimento; è necessario quindi spiegare loro che l’edificio che li accoglie non ha causato disboscamento bensì ha dato vita ad una nuova foresta, perché per ogni metro cubo di legno utilizzato un nuovo albero è stato piantato. In questo modo potranno capire a fondo la bellezza e le potenzialità di questo materiale leggero, antisismico, profumato e forse ancora oggi troppo sottovalutato.

Architettura in legno vuol dire più boschi

Riqualificare le periferie grazie alle scuole

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In immagine: Il progetto di Renzo Piano per la riqualificazione dell’ex area Falck di Sesto San Giovanni (Milano), il più grande recupero urbanistico d’Europa. 

Ultima ma non meno importante caratteristica è la collocazione: la scuola di Renzo Piano non poteva non essere in periferia. Secondo il Senatore a vita infatti, il “rammendo” delle periferie è la grande sfida di questo secolo, una sfida non solo architettonica ed urbanistica ma soprattutto sociale.

Bisogna smettere di costruire non-luoghi in cui il centro non è più centro e la campagna ancora non si configura come tale; basta edificare in maniera dissennata ed irrazionale. E’ necessario cominciare a recuperare e trasformare l’esistente, restituendo alle periferie la dignità che gli spetta; e non c’è modo migliore per restituire questi “spazi grigi” alle città se non con la creazione di luoghi per l’istruzione perché, come dice lo stesso Piano, si può scegliere di non visitare un museo ma tutti hanno il diritto e il dovere di andare a scuola.

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La seconda vita dei padiglioni dell’Expo 2015

Dal 31 ottobre, con la chiusura dell’esposizione universale ospitata da Milano per quest’anno, è partita la trasformazione dell’area, che diventerà una cittadella universitaria, ed un parco dell’innovazione: ivi saranno ospitate non solo facoltà scientifiche della Statale di Milano, ma anche un gruppo di aziende scientifiche e tecnologiche. Al momento mancano sia i progetti che i finanziamenti per la realizzazione, ma vi è un’unica certezza: circa il 40% dell’area, che in totale ricopre 1,1 milioni di metri quadri, sarà convertita in un parco urbano.

Che ne sarà delle numerose strutture allestite appositamente per l’evento?

Entro il 30 giugno 2016 tutte le strutture saranno smontate, lo spazio espositivo sarà utilizzato per la prossima Triennale di Architettura, a cura di Claudio De Albertis, da aprile a settembre.

Per la maggior parte, i padiglioni verranno smantellati per essere ricostruiti altrove:

Il Barhain, l’Azerbaijan e gli Emirati Arabi hanno annunciato che rimonteranno ognuno nel proprio Paese la struttura, riutilizzandola per scopi differenti; il Principato di Monaco donerà la struttura per scopi umanitari, utilizzandolo in Burkina Faso come sede della Croce Rossa; altri Stati abbatteranno quanto costruito, riconvertendolo in materiale da recuperare come ferro o legno;

Alcuni Paesi pensano di devolvere parte dell’arredo in beneficienza: il Padiglione cinese, disegnato dall’architetto Daniel Libeskind, venderà mettendole all’asta le 4 mila mattonelle, aventi forma di squame di drago, che rivestono l’edificio, come una pelle: il denaro così ricavato verrà utilizzato per la sistemazione dell’area intorno al Guangrenwang Temple, il tempio taoista dei 5 draghi, nella provincia dello Shanxi. 

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La stessa Expo spa potrebbe decidere di regalare alcune sedute o elementi di arredo, a favore di enti o associazioni. D’altra parte, nelle linee guida, cui hanno aderito tutti i Paesi partecipanti ad Expo, si stabilisce che “l’80 per cento dei materiali con cui sono stati fatti i padiglioni sia riciclato dopo l’Esposizione”.

Ci auguriamo dunque di cuore che la sostenibilità che ha condotto l’esposizione come un fil rouge resti tale anche nella pratica concreta, rendendo sostenibile l’intero evento, a vantaggio di persone realmente bisognose e comunque con un’impronta ecologica, che non sia impattante sull’ambiente, per il benessere di tutti noi esseri umani.

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La seconda vita di Expo 2015. Il futuro dell’area espositiva

Oltre 20 milioni di visitatori hanno in questi mesi varcato le soglie di Expo Milano e calpestato gli oltre 400 mila metri quadrati di area espositiva, allestita tra aree a verde, padiglioni e strutture di servizio. Solo alcune strutture, tra cui Palazzo Italia e l’Albero della Vita, e le aree a verde resteranno sul luogo mentre i padiglioni verranno spostati.

Molti padiglioni hanno pubblicizzato la loro “seconda vita” già dall’inizio dell’avventura Expo, spiegando come verranno riciclati, smontati, riutilizzati o trasferiti. Ma come verrà riutilizzata l’intero sito espositivo di Expo Milano 2015? 

LA PROPOSTA PER L’UTILIZZO DELL’AREA DELL’EXPO 

Tra Luglio e Agosto di quest’anno Agenzia del Demanio e Cassa Depositi e Prestiti hanno presentato a Regione Lombardia e Comune di Milano un dossier che presenta il progetto di futuro utilizzo dei terreni dell’Expo Milano 2015. Il dossier contiene i riferimenti ad alcune situazioni in cui si è riqualificata un’area di ampie dimensioni come per esempio il progetto Adleshof a Berlino e Silicon Roundabout a Londra.

Il progetto prevede tre macro aree: la cittadella universitaria, un parco tecnologico e un centro di servizi pubblici.

  • La cittadella universitaria ospiterebbe i locali dell’Università Statale, oggi collocati in via Celoria, dedicati alle facoltà scientifiche.
  • Il parco tecnologico vedrebbe collocato un polo di ricerca agroalimentare e il Crea, Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’economia agraria.
  • La cittadella dei servizi potrebbe ospitare invece diverse realtà pubbliche come Vigili del Fuoco, Agenzia delle Entrate, Archivio di Stato e altri servizi del Comune di Milano.

La proposta così formulata prevede un investimento totale di oltre un miliardo di euro. Il trasferimento dei locali universitari richiede all’incirca 540 milioni di euro, di cui metà coperti dal polo universitario. La realizzazione della cittadella dei servizi costerà oltre 200 milioni di euro, di cui una parte arriveranno dal risparmio dei canoni di locazioni dei locali che oggi ospitano i medesimi servizi.

Tutte le aree a verde presenti durante l’esposizione verranno mantenute.

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RIUTILIZZO AREA EXPO: LE IDEE DEL PUBBLICO

Su questo tema Corriere della Sera e Oxway, una delle prime piattaforme italiane di intelligenza e critica collettiva, hanno reso disponibile una piattaforma online nella quale dal 16 al 26 Ottobre, chiunque ha potuto esprimere la propria proposta.

Sono state oltre 500 le proposte caricate sulla piattaforma da oltre 1000 utenti iscritti tra imprenditori, architetti e ingegneri, liberi professionisti e pubblico comune. Le proposte pervenute sono state le più varie: molti hanno presentato l’idea di realizzare un polo universitario o un polo tecnologico. Altri hanno proposto l’idea di istituire un’area museale o una fiera mondiale a tema alimentare. Altri ancora avanzano la possibilità di realizzare strutture sportive.

I trenta migliori partecipanti, valutati sia della proposta progettuale che dei commenti su quelle di altri utenti, verranno premiati da una giuria di giornalisti della Redazione del Corriere della Sera.

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La seconda vita di EXPO 2015. Che ne sarà di padiglioni e aree verdi?

Expo ha chiuso i battenti. La manifestazione internazionale, che ha venduto oltre 20 milioni di biglietti in tutto il mondo, ha definitivamente terminato di accogliere visitatori.

Molti sono state le notizie di questi ultimi mesi, molti i servizi televisivi concentrati sui più vari aspetti di Expo: dalla ideazione ai costi, dal numero di consensi alle critiche, dai concept dei singoli padiglioni agli aspetti puramente organizzativi e di gestione.

Si dimentica a volte di parlare della seconda vita di Expo. Dove finiranno le strutture costruite? Che ne sarà delle aree a verde piantumate? Come sarà riutilizzata l’area espositiva? Quanto spreco di risorse e materiali sarà evitato?

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Sostenibilità: le linee guida di Expo

La direzione di Expo ha emanato, prima dell’apertura, in concomitanza con l’ideazione dei vari padiglioni delle linee guida per la sostenibilità delle strutture. In questo documento vengono trattati diversi aspetti della progettazione dei diversi padiglioni a partire dal consumo di suolo e di energia, dall’utilizzo di materiali sostenibili fino ad arrivare al fattore dismissione e riutilizzo.

Nel testo pubblicato vengono fatti precisi riferimenti a norme internazionali che prediligono la progettazione in ottica della futura dismissione ovvero progettare elementi e strutture avendo ben chiaro fin dall’inizio come queste verranno poi smontate, demolite o riutilizzate.

Vengono fornite inoltre indicazioni concrete come la limitazione nell’utilizzo di sigillanti o adesivi, poi di difficile smaltimento, o la documentazione fotografica delle fasi costruttive al fine di un più agevole smontaggio qualora le diverse parti poi non fossero più visibili ad opera conclusa.

Nelle linee guida si legge come ogni Paese sia stato invitato a ideare padiglioni che utilizzino per lo più materiali riutilizzabili, o tramite riciclo post demolizione o tramite spostamento delle strutture in altra sede o con altra destinazione d’uso.

La seconda vita dei padiglioni di Expo 2015

Molti Paesi si sono dimostrati virtuosi nell’adempimento delle Linee Guida emanate da Expo;

la maggior parte degli stati espositori ha mirato al riutilizzo della struttura in altra sede.

Bahrain: il padiglione, progettato dall’architetto Anne Holtrop e dal paesaggista Anouk Vogel, è costruito in pannelli prefabbricati in calcestruzzo bianco. Al termine della manifestazione verrà riportato in patria e trasformato in giardino botanico.

Monaco: il padiglione Monaco verrà trasportato in Burkina Faso per diventare la sede della Croce Rossa della città di Loumbila.

Regno Unito: il padiglione, costituito per la parte predominante da un grande alveare realizzato con una struttura reticolare in acciaio, diventerà un monumento.

Austria: di difficile spostamento è il padiglione austriaco costituito da un vero e proprio bosco di oltre 12000 alberi. Le piante più grandi, che superano i 15 m di altezza, verranno destinate al comune di Bolzano che rinverdirà un’area periferica della città.

Estonia: gli elementi del padiglione verranno riutilizzati come arredo urbano in patria.

Anche il Padiglione Coca Cola è stato progettato per poter essere riutilizzato come struttura sportiva a Milano.

Altra strada percorsa da alcuni Stati è quella della vendita all’asta delle strutture e degli arredi.

E’ il caso per esempio del Padiglione del Brasile e di quello svizzero che offrono, anche online, al miglior offerente, un pezzo di Expo.

Alcuni padiglioni purtroppo al momento non hanno presentato un piano di riutilizzo o di riciclo (si tratta di Kazakistan, Cina, Germania, Spagna, Thailandia, Qatar, Oman, Uruguay e Corea).

La seconda vita delle aree verdi piantumate

Expo non è costituito solo da padiglioni ma da un moltitudine di strutture ausiliarie e servizi per non parlare delle grandi aree verdi piantumate o a prato presenti sul suolo della manifestazione. 

Il mantenimento delle piante dopo Expo non sarà un problema per via delle caratteristiche del terreno favorevole e della tipologia di piante utilizzate, di cui solo la minima parte di importazione e quindi difficilmente adattabile al clima milanese.

Il Presidente dell’Associazione Mondiale degli Agronomi, in funzione anche di coordinatore del Tavolo della biodiversità di Expo Idee, afferma che la gestione delle aree a verde dopo Expo sarà relativamente semplice. La tipologia di piante comporterà poche operazioni di giardinaggio nella fase di transizione del dopo Expo, che sarà comunque nei mesi invernali. Se anche la fase di smantellamento di Expo e quindi il periodo transitorio che dovrà affrontare la vegetazione sarà lungo non si verificheranno problemi ma anzi verrà favorito il crearsi di uno spazio meno antropizzato e con aumento della biodiversità.

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Sei containers per una comunità sostenibile. Pechino contro l’inquinamento

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Nel distretto di Shunyi, periferia di Pechino, un giardiniere dal nome Niu Jian, ha costruito una casa fatta con sei containers, nella speranza di creare una comunità verde, dove le persone possano condividere un progetto di vita sostenibile, in una città ormai altamente inquinata. Nel giugno del 2014 “The container home” prende vita ed è solo la prima parte del suo piano. 

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“The container home” un’installazione temporanea per istruire i visitatori e diffondere l’idea di una comunità condivisa, tramite visite organizzate e programmazione di workshop. Nel  2016, il suo programma prevede la costruzione di dieci unità familiari, 1000 mq di laboratorio a più piani. Nel 2017 Niu spera di vedere realizzato un complesso di 10.000 mq a più piani per ospitare 100 famiglie, con la possibilità di vendere o affittare le unità. Niu Jian vede il suo lavoro come un tentativo per affrontare il saccheggio delle risorse naturali causato dall’industrializzazione, che ha distrutto, in molte città del mondo, l’equilibrio tra natura ed esseri umani. 

I containers per il progetto 

Il progetto è sostenuto da Sustainable Design Institute of Arts and Science Research Center, della prestigiosa Università di Tsinghua e dal Participatory Community Development Center. Le prerogative di base sono: tempi di costruzione brevi, facilità di montaggio, efficienza energetica e sostenibilità. Gli architetti incaricati sono SE Ding, Wang Wei, KONG Lingchen mentre il team di disegno sostenibile è formato da vari architetti e professori: Liu Xin, HU Yechang, CHEN Weiran, SU Yurong, XU Zhetong, Yang Xu, TU Wanrong.

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Il progetto si compone di sei containers di 20 piedi (6.055 m x 2.435 m x 2.79 m), prefabbricati con porte e finestre, isolamento e alimentatore elettrico. Ogni container rappresenta un modulo base e la combinazione di più moduli dà vita a diverse varianti topologiche. In questo progetto specifico, l’edificio prevede 5 moduli verticali e uno orizzontale, che delimita lo spazio di una corte. La casa comprende tre camere da letto, un ripostiglio, uno spazio/laboratorio con stampante 3D e vari strumenti di taglio, una zona pranzo, la cucina e un bagno. I containers sono stati trasportati sul sito e, in tempi brevissimi, sollevati e installati; in seguito i moduli sono stati giuntati tra di loro e impermeabilizzati, e infine, sono state montate le scale e le porte interne. I sei containers sono costati 180.000 yuan, il trasporto e l’installazione 38.000 yuan, per un totale di 218.000 yuan (31.000 euro).

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Il processo costruttivo è semplice e rapido, non necessita di elevata manodopera o risorse materiali, è a basso impatto acustico e ambientale. Il proprietario si è incaricato della progettazione interna e degli impianti secondo la filosofia del DIY (Do it Yourself).

Gli aspetti sostenibili del progetto

Il progetto adotta una serie di espedienti per ridurre le emissioni e gli sprechi: raccolta delle acque reflue, trattamento e riutilizzo per generare il sistema di acqua riciclata; scarti di cucina, raccolta escrementi, trattamento e riutilizzo per alimentare il sistema di produzione di biogas; pannello solare da 600 watt e turbina eolica da 300 watt per alimentare le luci LED.

Niu Jian e la sua famiglia hanno installato personalmente tubi e lampade LED per la crescita delle piante in cucina. Possono mangiare le verdure che coltivano loro stessi grazie alla parete verde e al giardino di colture biologiche sul tetto. Gli scarti come bucce d’arancia, gusci d’uovo, foglie ecc. vengono polverizzati attraverso un tritarifiuti posto sotto il lavello e confluiscono in una piccola cisterna per il riciclaggio. In bagno, infatti, sono presenti quattro cisterne di plastica. Un serbatoio contiene le acque grigie utilizzate per il risciacquo del wc; un altro raccoglie l’acqua piovana utile per l’irrigazione; gli altri due sono collegati ad apparecchiature per la produzione di gas metano da liquami trattati e rifiuti di cucina. Il gas viene utilizzato per la cottura, mentre i residui solidi e liquidi vengono utilizzati come fertilizzante per le coltivazioni. 

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Niu e la sua famiglia vivranno per due anni in questa casa per sperimentare questo nuovo stile di vita, per capire cosa migliorare nel layout funzionale, nel sistema energetico o per quanto riguarda la manutenzione degli impianti per il verde, al fine di stabilire un insieme di soluzioni costruttive ecosostenibili per  un futuro sviluppo partecipativo comunitario. Liu Xin, professore al Sustainable Design Centre dell’Università di Tsinghua, afferma che nonostante molte persone in Cina abbiano cercato di costruire case ecologiche alimentate da vento e metano, tuttavia il progetto di Niu, è il più coraggioso perché combina, in un unico organismo, trattamento delle acque reflue, roof garden, coltivazione indoor, energia solare ed eolica ecc.

I containers, tutti dipinti di bianco, si distinguono dagli edifici circostanti. Un orto davanti casa e le pareti coperte di piante color pastello. È questo lo scenario, forse un po’ pittoresco, che Niu sceglie, per promuovere l’armonia tra la natura e gli esseri umani.

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In Svezia alla scoperta di una casa che produce cibo anziché rifiuti

E poi capita che in un giorno d’estate, in vacanza in Svezia viaggiando da Stoccolma a Goteborg, alzi lo sguardo e vedi qualcosa di inaspettato ai bordi del lago Vättern.

Dopo immense foreste verdi e vastissimi campi coltivati, proprio quando inizi a riconsiderare quella che fino ad allora hai sempre creduto potesse essere la definizione di “deserto”, ecco che in questa landa desolata compare una costruzione che ha quasi dell’incredibile: la Uppgränna Nature House, casa auto-sostenibile che produce cibo e nessun rifiuto.

Ristrutturare fienili: un esempio in Tasmania

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Inizialmente si potrebbe non far caso all’eccezionalità dell’opera.  Ma di fatto non è così. Gli svedesi sono maestri di design e di tutto ciò che è ecosostenibile ed ecocompatibile ed hanno quindi realizzato qualcosa di eccezionale.

L’Uppgränna Nature House è un vero e proprio “edificio serra”: un vecchio fienile è stato cioè trasformato in una serra a basso impatto ambientale all’interno della quale persone e piante vivono insieme in armonia e vengono prodotti alimenti in modo sostenibile con un sistema di riciclo dell’acqua a circuito chiuso.

L’opera è dello studio TailorMade Arkitekter che ha progettato la struttura in collaborazione con Living Serra, un gruppo di consulenza che lavora sullo sviluppo di progetti Naturhus eco-compatibili.

L’Uppgränna Nature House unisce il design contemporaneo con l’architettura tradizionale svedese. L’edificio mantiene infatti la classica forma a due spioventi, ma la sua particolarità sta nel fatto che la parte inferiore della struttura con il suo colore rosso, rievoca il fienile e le case svedesi, mentre l’intera parte superiore è realizzata con vetrate isolanti che richiamano un’estetica decisamente più moderna. La serra che si viene così a creare al livello superiore occupa quasi la metà della pianta dell’edificio ed ospita aiuole contenti frutta, fiori e ortaggi, il tutto all’interno di un clima decisamente mediterraneo. Al suo interno trovano posto anche un piccolo laghetto con una cascata e una grande varietà di agrumi.  Il livello inferiore ospita aree ristoro dove la cucina propone piatti vegetariani a base di prodotti coltivati ​​in serra, sale riunioni, spa e camere da letto. 

L’obiettivo è quello di realizzare una casa auto-sostenibile che produce cibo, invece di rifiuti. Inoltre, vivere in una serra dovrebbe incoraggiare uno stile di vita sostenibile e non tossico.

L’Uppgränna Nature House non è collegata a un sistema fognario e riutilizza le acque reflue come irrigazione in un sistema a circuito chiuso. Costruito principalmente in legno, l’edificio è ben isolato e riesce a mantenere un basso impatto energetico grazie alla ventilazione solare e naturale passiva.

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Donne tessitrici del Marocco: un progetto per valorizzare il lavoro artigiano

Sul palco del padiglione dell’Angola, ci sono Pietro Maffio e Fawzia Talout Meknassi, premio Nobel per la pace 2015, responsabile del progetto: “Le donne Tessitrici del Marocco”. 

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Il progetto di Fawzia Talout Meknassi – nato prima del bando Energy Art and Sustainability for Africa lanciato da Expo Milano 2015 ed Eni, volto a valorizzare il continente africano attraverso conferenze, talk show, workshop e spettacoli –  cerca di evidenziare il legame tra l’attività artigiana delle donne marocchine e lo sviluppo ecosostenibile del pianeta. Lo fa principalmente attraverso l’analisi della tradizione di tessitura in Marocco – che potrebbe essere fonte di ispirazione e aiuto per gli altri paesi africani – e la conoscenza della bellezza dei tessuti prodotti in Marocco.

La tradizione della tessitura in Marocco

La tessitura fa parte di un essere vivente dinamico che genera un prodotto autentico e permette di mantenere intere popolazioni. Generazioni di donne si sono susseguite per creare diversi tipi di tessuto, dai più rustici ai più fini; quello che le accomuna è il rito e il rispetto con il quale queste donne si approcciano a questa arte. Ogni tessuto prodotto è unico ed è quasi impossibile riprodurlo; le stesse donne per il rispetto verso il loro lavoro si rifiutano di completare prodotti (abiti, tappeti o tende) che siano copie di altri già presenti sul mercato.

Come l’attività in sé, anche lo strumento utilizzato principalmente dalle donne artigiane del Marocco, il telaio, viene utilizzato e trattato con grande rispetto. Attorno a questo organo vi è un alone di riguardo e di venerazione tanto che il corpo della donna artigiana, prima della tessitura, deve essere purificato. Per la donna il telaio ha una personalità, non deve essere attraversato in segno di rispetto, e il lavoro che le permette di realizzare, tramandato di generazione in generazione, è sacro, va oltre alla sola tessitura e oltre la sua vita.

Il progetto di Talout Meknassi sulle tessitrici marocchine

Con Il libro “Il segreto delle donne artigiane del Marocco”, la Meknassi cerca di trasmettere l’energia del rito della tessitura e l’atteggiamento con il quale queste donne si approcciano a quest’arte utilizzando risorse che il territorio le mette a disposizione, per il telaio (semplici rami o pezzi di legno che gli alberi hanno messo loro a disposizione e non da legno trattato o lavorato) o per la stoffa (lana di pecora che è cresciuta mangiando erba irrigata naturalmente da acqua di fiume).

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La tessitura è la storia delle donne fatta dalle donne, nel tempo delle donne. Le tessitrici tramandano questa cultura e queste tradizioni per mantenere, nelle loro pratiche quotidiane, un equilibrio ambientale (che è anche il tema di Expo Milano 2015) in armonia con la Terra e con il loro territorio, apprezzandone la generosità e il legame mistico e spirituale che si è creato. Le donne, attraverso il loro rituale e la loro arte, riescono a coniugare la loro attività alle risorse territoriali trasmettendo un legame strategico che riporta ad un fattore di sviluppo sostenibile.

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Il progetto della Meknassi, presenta tre pilastri fondamentali:

  1. il primo, la base, è l’approccio a questa arte che varia a seconda della localizzazione geografica e della tipologia del lavoro che la donna artigiana compie. La donna che lavora con il telaio, come la donna che cucina o che si occupa della casa, canta e danza come se stesse seguendo un rito. Il suo lavoro in questo modo si impregna di arte, quella ricercata, quella che diventerà patrimonio universale e conferirà all’umanità la stessa gioia che prova un’artigiana a svolgere il suo lavoro.
  2. il secondo, sono gli atelier di iniziazione alla tessitura e spiegano il legame con il cibo. I prodotti che restituisce la terra del Marocco, sono naturali e saporiti; la loro semplicità e la loro genuinità li contraddistingue in tutto il mondo: il pane, l’olio di oliva, il miele, l’olio di argan.
  3. il terzo, in costruzione, e si effettua giorno per giorno, è la conferenza e il dibattito per mantenere e valorizzare le nuove generazioni. Troppo spesso gli europei si lamentano dell’immigrazione nei loro paesi da parte del popolo africano, ma questi non si rendono conto che un africano emigra con molta dignità e con l’aspettativa di migliorare la propria vita.

La donna artigiana lavora principalmente per un ritorno economico ma le giovani generazioni sognano un futuro e uno sviluppo migliore e si sentono costretti ad emigrare abbandonando il proprio territorio e la propria cultura. Le donne tessitrici compongono il 90% dei tre milioni di artigiani a reddito attivo in Marocco, e con i proventi di questi tre milioni di lavoratori, vivono oltre dieci milioni di persone. La donna artigiana è un esempio da seguire perché trasmette al mondo i suoi prodotti e la sua arte costituendo parte attiva nell’economia e nello sviluppo ecosostenibile del territorio africano.

Il progetto di Fawzia Talout Meknassi, vuole farsi carico oggi di alcune problematiche da risolvere legate ad aspetti della tradizione e delle esigenze di mercato. Troppo spesso ancora oggi, i prodotti di queste attività sono il risultato di uno sfruttamento del lavoro e del reddito delle donne artigiane. Un altro problema è dato dalla dimensione dei prodotti di queste attività artigianali. I grandi tappeti di una volta, oggi, sono difficili da collocare poiché le dimensioni delle abitazioni degli odierni nuclei familiari sono minori. L’associazione cerca quindi di formare le donne artigiane alla produzione di manufatti più piccoli che possano essere commercializzati più facilmente, senza lasciare in secondo piano l’autenticità del prodotto.

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Infine, ma non meno importante, bisogna trasmettere la tradizione e la cultura di queste tessitrici, questo know how alle nuove generazioni e ai figli di queste artigiane, come è successo fino ad oggi, insegnare l’importanza di quest’attività che ha reso possibile l’avanzamento culturale e il mantenimento di questo equilibrio ecologico posto alla base di un’economia sostenibile.

Spesso si pensa che uno sviluppo sostenibile non debba essere necessariamente legato alla presenza di una forte cultura di base. Il lavoro delle donne artigiane del Marocco invece ci insegna che è proprio la cultura ad essere alla base dello sviluppo sostenibile della loro società.

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L’orfanotrofio sostenibile in Kenya dal cuore tedesco

Questa storia inizia con un giovane tedesco, Torsten Kremser, che, insoddisfatto della sua vita nonostante un lavoro sicuro e ben pagato, parte dalla Germania e comincia a viaggiare in Asia e soprattutto in Africa.

La seconda protagonista della vicenda è una donna africana di sessantadue anni, Mama Dolphine, il cui dolore per la perdita di due dei suoi figli nello stesso anno la spinge a riprendere in mano la sua vita. Si convince che dalle tragedie può nascere qualcosa di buono e che la sua esistenza ha ancora un senso, così progetta di creare un luogo accogliente per i numerosi orfani di Kisian, la città in cui vive, in Kenya.

ARCHITETTURA IN AFRICA: UN ORFANOTROFIO IN MALI

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COME È NATO KORANDO EDUCATIONAL CENTER

Torsten e Dolphine s’incontrano casualmente; lui rimane talmente commosso e colpito dalla sua storia che decide di aiutarla con la realizzazione dell’orfanotrofio, una struttura ecosostenibile capace di educare e offrire vitto e alloggio ai bambini orfani di genitori vittime di AIDS.

Si attiva subito lanciando una prima campagna di raccolta fondi con la quale ricava settecento euro che servono per costruire le prime cupole a basso costo, mattoncino su mattoncino, fornendo ai bambini i primi alloggi e una classe con lavagna e computer.

Nasce così il Korando Educational Center.

Ma servono più fondi per completare il progetto, perciò il giovane tedesco dal cuore grande fonda Cheap Impact, un’organizzazione umanitaria per finanziare questo centro educativo che strizza l’occhio all’ambiente.

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IL PROGETTO DELL’ORFANOTROFIO SOSTENIBILE

L’orfanotrofio s’ispira a un progetto di Steve Areen in Thailandia e si compone di strutture a quattro cupole, costruite da otto volontari alla volta, che contengono camere, bagni e una zona centrale usata come soggiorno e area sociale.

L’acqua è riscaldata tramite pannelli fotovoltaici che alimentano anche il sistema d’illuminazione a led. Le acque grigie dei bagni e della cucina irrigano il bosco e grandi lucernari favoriscono la ventilazione e un’ottima illuminazione naturale. Si prevede inoltre di costruire un digestore di biogas per trasformare il letame delle mucche e dei maiali in combustibile per cucinare.

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I bambini e i ragazzi ospitati oggi nel Korando Educational Center sono 205 e tutti frequentano la scuola, fra loro vi sono anche piccoli maltrattati e abusati dai loro parenti ai quali il centro offre un rifugio sicuro.

Dice Torsten: “Abbiamo dato al centro una struttura unica. Lo scopo è attirare l’attenzione del mondo e ricevere supporto per rendere questo spazio sempre più ecosostenibile e farlo crescere per ospitare sempre più bambini vittime di violenze”.

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Casa Natura: si alimenta con una serra che genera cibo e calore

Nel sud della Svezia, non lontano dal lago Vättern, in un contesto tipicamente agricolo e caratterizzato da strutture rurali rosse con persiane bianche, sorge la “Uppgrenna Naturhus”, ovvero “casa Natura”.

Costruire un’architettura efficiente ed accessibile, con spazi per la riflessione e l’apprendimento, in cui si possa influenzare il comportamento dei residenti verso un atteggiamento più affine ai concetti sostenibili e di valorizzazione del paesaggio, questi sono i presupposti che hanno portato alla realizzazione della “Uppgrenna Naturhus”.

UN FIENILE FIAMMINGO DIVENTA UFFICIO

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Il progetto di “Casa Natura”, di Tailor Made Arkitekter, conferisce una nuova connotazione a questo luogo tipicamente rurale: dove prima un vecchio fienile rosso veniva utilizzato per il deposito dei macchinari agricoli, sorge un nuovo edificio, adibito a conferenze, seminari, ristorante e spa.

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Il progetto si ispira al concetto architettonico locale “Naturhus” sostenuto sin dal 1970 da Bengt Warne. Warne era, infatti, convinto che vivere in una serra potesse esprimere la quarta dimensione dell’architettura, dove il tempo fosse scandito dai flussi infiniti del sole, della pioggia, del vento e del suolo, in cui l’architettura venisse influenzata dall’ambiente e da esso trovasse giovamento.

La “casa Natura” si compone di tre parti: due più prettamente architettoniche costituite da un edificio isolato e da una serra che si estende verso l’esterno con delle terrazze protette, ed una terza impiantistica per il riciclaggio delle acque reflue.

Oltre 200 metri quadrati, dei 520 metri quadrati totali, è occupato dalla serra, che si articola in ampie terrazze che si aprono verso il lago Vättern, offrendo un contatto diretto con l’ambiente naturale. La serra, oltre a costituire il cuore della casa, permette di preriscaldare l’aria necessaria per la ventilazione della casa e offre la possibilità di coltivare piante che necessitano di un clima meno aspro.

All’interno è possibile pranzare,  le sale riunioni occupano un soppalco di legno sotto il tetto di vetro spiovente, una seconda terrazza inferiore è circondato da piantine, mentre una sala per trattamenti benessere e una camera degli ospiti si trovano nella base di legno della struttura, che è parzialmente affondata in un pendio erboso.

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Inoltre, si è ricercato di recuperare i nutrienti provenienti dalle acque reflue (azoto e fosforo), valutando i parametri qualitativi dell’acqua. Grazie a questo, infatti, la serra permette di creare una rete locale chiusa di riciclo dei rifiuti delle acque reflue, cosicché non si debba richiedere l’allacciamento alla rete fognaria comunale.

La ricerca di creare una struttura autosufficiente è ulteriormente incentivata dal fatto che alcuni dei prodotti serviti nell’area ristoro siano coltivati direttamente nella serra: grazie allo sfruttamento delle sostanze nutritive dei liquami prodotti dalla struttura stessa. Si crea, così, un sistema che genera cibo e calore, piuttosto che consumarlo.

L’esterno ispirato alle tradizionali fienili svedesi: porticati semplici, persiane bianche e muri rivestiti con pannelli rossi in legno, ma qui, il filo continuo si spezza e la facciata assume dinamicità intervallandosi tra superfici opache e vetrate, in modo da ridurre la dispersione del calore quando la casa non viene utilizzata.

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Vivere in una serra incoraggia uno stile di vita sostenibile e non tossico e chiarisce il perché non si debba emettere sostanze inquinanti nell’ambiente, preferendo la trasformazione dei prodotti e delle risorse in base alle proprie necessità.

Il progetto nasce con l’intento di realizzare una casa autosufficiente che produca cibo, invece di rifiuti.  Una case che genera energia, invece di solo consumo e, in definitiva, spazi che inducano alla riflessione e all’apprendimento di un comportamento più affine al contesto in cui un determinato progetto di colloca.

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Un vecchio fienile ristrutturato diventa la casa di una coppia di architetti

A Hobart, in Tasmania, due giovani progettisti hanno compiuto il loro piccolo miracolo, trasformando un vecchio fienile in un’accogliente dimora. Alex Nielsen e Liz Walsh, dopo gli studi presso l’Università della Tasmania in Progettazione Ambientale e Architettura e aver viaggiato in Europa e Marocco per formarsi come architetti, hanno deciso di iniziare in questa impresa. Sono rientrati in patria e, assunti presso famosi studi di architettura a Hobart (Liz è a Cumulus Studio, Alex al Circa Morris Nunn Architects ) hanno coltivato il loro personale sogno: ristrutturare un vecchio edificio e tramutarlo nella loro casa.

LA RISTRUTTURAZIONE DI UN FIENILE IN PIETRA E ACCIAIO

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Liz e Alex hanno acquistato il fienile già l’anno dopo la laurea. La sfida era rendere funzionale alla vita di una giovane coppia un edificio vernacolare di 9×5 metri, nato grazie all’utilizzo di materiali locali e tecniche che sono state tramandate di generazione in generazione.

L’esperienza vissuta all’estero ha permesso ai due architetti di apprezzare lo stile di vita di città come Copenhagen e Cracovia, che hanno puntato sulla valorizzazione delle case in città e della mobilità pedonale. Tornando a Horbart, sulla strada che percorrevano ogni mattina, si sono accorti della presenza dell’edificio e hanno cominciato a fantasticare su come sarebbe potuto essere dopo il loro intervento. 

Dopo numerosi schizzi e tanti pensieri, hanno fatto un’offerta, riuscendo a ottenere il piccolo fabbricato nel 2012 e ad iniziare i lavori di riqualificazione all’inizio del 2013.

A dispetto delle loro previsioni, il fienile in arenaria era in buone condizioni strutturali, pur essendo risalente al 1829. La destinazione era sempre rimasta ricovero animali, cristallizzata negli oggetti e negli spazi per anni. Nei 62mq a disposizione, sono stati sapientemente riutilizzati la mangiatoia dei cavalli, lasciata in una posizione baricentrica, dove era posizionata in origine, e trasformata in lavatoio per il bagno, ovviamente dotato di tutti i collegamenti idraulici. Internamente il tetto è stato conservato, mantenendo la suddivisione ritmica dei travetti, mentre all’esterno è stato predisposto un manto dichiaratamente a contrasto. La porta dell’ingresso principale è originale, mentre le finestre sono state sostituite con infissi ad unica anta.

Il vero fascino dell’edificio sta in questi dettagli, nella ruvida percezione del suo passato valorizzato dagli inserti progettati da Liz e Alex.

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Dal punto di vista finanziario, il prestito concesso dalla banca consentiva solo la realizzazione dei lavori a piano terra, mentre non dava garanzie per il completamento del soppalco, il granaio, con un tetto spiovente a 45°. Per questo, dopo aver ultimato i primi lavori, la coppia si è trasferita nel fienile, a fine 2013, procedendo un po’ più a rilento con il piano superiore a soppalco, in cui erano previsti la camera da letto e studio.

Il progetto, ora completamente realizzato, nasce dalla passione di due giovani talenti (sotto i 30 anni) che hanno creduto nel loro sogno e, non senza difficoltà, hanno messo a frutto le loro capacità, costruendo un nido per il loro futuro. La loro casa.

Il progetto è stato nominato per il premio dell’Australian Institute of Architects, nella categoria “patrimonio e piccoli progetti”.

Il progetto e la loro storia ti piace? Coraggio e fiducia nel futuro! 

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Autocostruzione di una scuola in Cambogia

La scuola secondaria situata nel villaggio di Roong in Cambogia, realizzata per merito di Architetti senza Frontiere (ASF Italia Onlus), ha meritato la medaglia d’argento del Premio Internazionale Architettura Sostenibile 2015, ideato e promosso dall’azienda Fassa Bortolo insieme al Dipartimento di Architettura dall’Università di Ferrara. Il contesto in cui sorge il progetto è quello di un villaggio povero nella provincia di Takeo, a 50km a sud di Phnom Penh, la capitale della Cambogia. Si tratta di un’area che vive una forte trasformazione economica e che vede un massiccio spostamento della popolazione nei nuovi poli industriali dislocati nelle campagne. In questa zona, l’associazione onlus Missione Possibile, aveva già realizzato una scuola primaria, per cui nel 2012 affida ad Architetti Senza Frontiere la missione di progettare una scuola secondaria.

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Il team di architetti concepisce allora un progetto che si basa su principi ecosostenibili, utilizza materiali e tecniche costruttive locali e impiega manodopera non specializzata, secondo la filosofia dell’autocostruzione in architettura.

IL PROGETTO DELLA SCUOLA DI ROONG

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Il progetto prevede una prima fase (ultimata), in cui si realizzano sei aule e due uffici, e una seconda dove saranno costruiti due laboratori, alloggi e servizi per insegnanti e volontari.

Da un punto di vista tipologico, l’edificio di presenta come un unico corpo in linea di dimensioni 62,8m x 10,2m. Da un lato si sviluppano le aule e dall’altro un lungo corridoio porticato funge da spazio di distribuzione ma non solo. Infatti, essendo ampio 3m e alto 5m, il corridoio si caratterizza luogo di condivisione e socializzazione, in un’ottica di trasformazione delle classiche gerarchie spaziali dell’edilizia scolastica, secondo le indicazioni della pedagogia moderna. Inoltre, non potendo sfruttare il cortile esterno durante i giorni di pioggia o di caldo torrido, il porticato diventa il luogo per l’incontro e il gioco.

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Nuove connessioni spaziali

Gli architetti ripensano il rapporto tra aule e corridoio non solo a livello planimetrico ma anche spaziale. Le pareti delle classi vengono smaterializzate  attraverso l’introduzione di grandi pannellature fisse in bambù. Ogni pannello, di dimensioni 1,7m x 3,6m, si compone di una serie di canne di bambù, a ritmo variabile. I culmi, infatti, sono più vicini tra loro ad altezza occhi rispetto alla posizione da seduto, così da evitare distrazioni visive.

Anche il rapporto tra portico e cortile viene progettato con un’idea ben precisa. L’intento è avere un diaframma permeabile con andamento variabile, che consenta una percezione visiva maggiore nella zona prospiciente le aree comuni, ovvero due piazze aperte che interrompono la successione delle aule. Si tratta di una sequenza di setti murari con un passo strutturale costante pari a 2,3m.

Il portico con le sue aperture e il diaframma di bambù sono anche gli elementi che maggiormente caratterizzano l’estetica dell’intero organismo.

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I materiali e le tecniche

I materiali scelti sono per il 75% locali, mentre l’uso di cemento e ferro è relegato solo alle fondazioni. Terra cruda e bambù sono utilizzati secondo tecnologie costruttive industrializzate, al fine di poter adoperare manodopera non specializzata e ottenere una maggiore economicità di tempo e di risorse.

I mattoni sono, infatti, facilmente replicabili; attraverso una cassaforma in ferro è possibile realizzarne 16 di dimensioni 30x15x10 cm, con un solo getto. I blocchi sono allettati con malta cementizia e irrigiditi  da ferri di 8 mm connessi alle fondazioni. Queste ultime presentano una maglia di strisce di bambù al posto della rete elettrosaldata, annegata all’interno del massetto e appoggiata su un foglio di poliuretano che la separa dal suolo.

La copertura è costituita da una struttura portante con travi di bambù, lunghe circa 11 metri, su cui poggia una lastra ondulata in fibrocemento spessa 12 mm. All’interno, il tetto presenta un rivestimento di foglie di palma intrecciate. Le 28 travi poggiano su tre punti con luce variabile (6,6m per le aule e 3,3m per il corridoio). Ogni trave è formata da tre culmi di bambù, connessi tra loro con barre filettate. Le travi si collegano con quelle di bordo tramite un sistema di selle in ferro.

Per quanto riguarda gli intonaci, all’interno si sceglie un intonaco di calce, mentre per l’esterno si opta per un intonaco addizionato con cemento e pigmenti colorati per aumentare la capacità di resistenza all’effetto della pioggia battente.

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Ventilazione e comfort termico

La ventilazione naturale verticale è favorita dall’altezza di colmo di 5m, che permette la fuoriuscita dell’aria calda; mentre la ventilazione orizzontale è garantita dai diaframmi permeabili in bambù. Il corridoio/portico rappresenta una zona di filtro microclimatico; i setti del portico, infatti, proteggono le aule dal sole e dalla pioggia, anche se potrebbero crearsi dei piccoli problemi in caso di piogge di stravento.

Per quanto riguarda il comfort termico, il tetto presenta un’unica grande falda orientata a nord per diminuire l’angolo di incidenza dei raggi del sole.

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La realizzazione della scuola è costata circa 64.000 euro, compresi servizi igienici e pozzo. Alla costruzione hanno partecipato a turno diverse squadre di operai non specializzati, che hanno sfruttato il cantiere come una possibilità per apprendere l’uso dei materiali locali e sperimentare nuove tecniche costruttive.

Consegnare una scuola è un regalo per tutta la comunità, ma insegnare a costruirla è un dono anche per le comunità future.

Questo è uno dei tanti aspetti della pratica dell’autocostruzione.

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Progetto di recupero di un casino di caccia

Arfanta è una frazione del comune di Tarzo in provincia di Treviso costituita da uno sparuto numero di case dominate dal campanile della chiesa parrocchiale e abbracciate dalle colline circostanti. Nel XVII secolo una nobile famiglia veneziana fa edificare in questo luogo sperduto Casa Crotta probabilmente destinata a essere un casino di caccia. Negli anni lo stabile è stato dimenticato e abbandonato, ma grazie al progetto dell’architetto Massimo Galeotti è stato possibile salvare l’edificio e trasformarlo in casa d’abitazione inserita nel circuito regionale delle ville venete.

CASERA GIANIN: IL RECUPERO DI UN CASINO PER PASTORI

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IL PROGETTO DEL RECUPERO DEL CASINO DI CACCIA

Casa Crotta è costituita da due volumi: un parallelepipedo con copertura a doppia falda costituisce il nucleo originario affacciato sulla via principale del paese, mentre sul retro è collocato un piccolo stabile aggiunto in epoche passate. Al fine di razionalizzare gli spazi dell’ex casino di caccia e renderli vivibili senza snaturare i caratteri distintivi della costruzione sono state create due unità abitative separate: una si dispone su tre livelli e occupa il corpo di fabbrica principale, l’altra è accolta nel volume più piccolo e si sviluppa su due livelli.

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Se dall’esterno nulla appare modificato, gli ambienti interni si caratterizzano per un utilizzo di pochi e riconoscibili elementi compositivi al fine di ricordare e sottolineare che questo era un semplice casino di caccia utilizzato pochi giorni all’anno e dall’aspetto spartano. I pavimenti della zona giorno sono quelli originali in cotto e i gradini delle scale principali sono in pietra, mentre per le camere da letto si è preferito utilizzare il legno non trattato. Le spesse pareti in sasso sono state lasciate a vista in alcuni punti, mentre in altri sono state intonacate di bianco. Inoltre, tutti i materiali in pietra e terracotta recuperati durante il cantiere sono stati ripuliti e riposizionati all’interno dell’abitazione.

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La trasformazione di Rieselfeld, quartiere ecosostenibile di Friburgo

Il quartiere ecosostenibile Rieselfeld di Friburgo, in Germania, è il frutto di una sfida ecologista: coniugare la necessità dell’amministrazione comunale di nuove abitazioni con la lotta alla cementificazione da parte di associazioni naturaliste per preservare preziosi ecosistemi. Nascono così il quartiere più grande della città e la riserva naturale Freiburger Rieselfeld, 320 ettari totali di cui solo 70 edificati.

In copertina: foto da www.freiburg.de

FRIBURGO: LA RIQUALIFICAZIONE DEL QUARTIERE WEINGARTEN

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caption: foto © WMUD | Willie Miller Urban Design + Planning

Origini e storia del progetto del Rieselfeld

L’area prende il nome dai Reiselfelder ovvero gli impianti per la depurazione delle acque di scarico che hanno occupato la zona per circa un secolo, dal 1895. Adibiti al filtraggio delle acque reflue di tutta la città, gli impianti sono stati dismessi nel 1985 quando un più grande e complesso impianto di depurazione è entrato in funzione a circa 15 km da Friburgo.

L’area è resa edificabile negli anni ‘90 dopo che attente indagini sul sottosuolo avevano evidenziato circoscritti danni ambientali, risanati da un’attenta operazione di bonifica del terreno, ma anche la presenza di flora e fauna degne di protezione. In accordo con gli ambientalisti, le autorità comunali decidono di limitare l’edificazione a meno di un quarto della superficie totale, destinando la restante parte a parchi protetti.

caption: foto © Thomas Kunz

I lavori ad uno dei quartieri più sostenibili di Friburgo partono nel 1994 su progetto curato dalla stessa amministrazione comunale in collaborazione con l’impresa di servizi municipali KE LEG di Stoccarda ( “Gruppo Progetto Rieselfeld”). L’obiettivo è quello di creare un ambiente attivo, con diverse tipologie di edifici ed adatto a tutte le generazioni in cui un’adeguata larghezza delle strade e la presenza di spazi verdi ad ogni isolato fa da contraltare ad un’elevata densità edilizia, necessaria per ridurre al minimo il consumo di suolo.

caption: caption: a sinistra foto © Thomas Kunz, a destra foto © Ingo Schneider

Gli aspetti ecologici della pianificazione e la viabilità

Le linee guida dettate per la pianificazione hanno da subito evidenziato per il quartiere una politica edificatoria volta all’ecosostenibilità. L’orientamento degli edifici e le distanze minime imposte tra i fabbricati sono tali da garantire un’esposizione ottimale, evitando spiacevoli fenomeni di ombreggiamento. Le costruzioni sono tutte a basso consumo energetico, con un fabbisogno che non supera i 65 kWh/mq annui. L’impianto di riscaldamento di tutte le strutture deve essere necessariamente connesso alla centrale di teleriscaldamento di Weingarten così come obbligatorio è l’approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili, in particolare fotovoltaico e pompe di calore.

Un efficiente impianto di depurazione garantisce inoltre il trattamento e recupero delle acque reflue e delle acque piovane.

La linea tramviaria, che attraversa il quartiere lungo la Rieselfeldallee (viale Rieselfeld), costituisce la spina dorsale dell’impianto a maglia ortogonale. Al centro di tale asse, in direzione nord-est, si estende il parco “Grünkeil”, un vero e proprio cuneo verde che penetra all’interno della città e in cui si sviluppano liceo, palestre, scuole elementari, centri di incontro e chiese. Lungo la Rieselfeldallee si trovano anche edifici residenziali: tipologie in linea e a blocco fino a 5 piani che, man mano che ci si sposta verso la periferia, lasciano spazio a case a schiera e abitazioni bifamiliari.

Per disincentivare l’uso delle automobili private e ridurre così le emissioni sono state adottate severe misure per la gestione del traffico, l’uso della bicicletta e dei mezzi pubblici. Lungo l’intera rete stradale vige l’obbligo di precedenza ai pedoni, ai ciclisti e al tram che collega il quartiere con il centro di Friburgo; il limite di velocità è pari a 30 km/h e alcune strade, riservate al gioco, sono totalmente chiuse al traffico; tutte le zone del quartiere inoltre, sono facilmente raggiungibili con i mezzi pubblici.

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Una fitta trama di verde scandisce l’intero territorio comunale a diverse scale: i giardini dei vari isolati sono connessi tra di loro e con ampi parchi pubblici attraverso un’infrastruttura verde fatta di viali alberati.

Fiore all’occhiello del sistema è la riserva naturale nella zona ovest di Rieselfeld che, con i suoi 250 ettari, è una delle più grandi della Germania. Un preciso programma di manutenzione ne consente un costante mantenimento mentre nel corso degli anni è stato creato un sentiero naturalistico, per cittadini e turisti, con indicazioni sulla flora la fauna presenti. Lungo tale percorso, tra piante e siepi, sono ancora visibili i resti delle dighe e delle vasche prima utilizzate per la raccolta delle acque di scarico ed ora divenute habitat per erbe selvatiche come papavero, fiordaliso e camomilla. Campi per il pascolo si alternano a foreste umide ben conservate in cui si sono sviluppate specie di uccelli come il beccaccino, il piro piro e l’airone cenerino; anche le cicogne bianche hanno trovato nella riserva zone adatte per la riproduzione.

Un progetto “partecipato”

caption: foto da www.plannersweb.com

Il “Gruppo Progetto Rieselfeld” ha sempre cercato di interagire attivamente con i cittadini promuovendo costantemente la partecipazione della comunità nella progettazione degli sazi urbani; seguendo il principio “più attività, meno amministrazione” hanno anteposto il benessere della comunità agli interessi individuali, cercando comunque di imporsi sul mercato immobiliare di Friburgo. Numerose famiglie ed anziani hanno deciso di trasferirsi a Rieselfeld e tale riscontro positivo ha permesso all’amministrazione di perseguire nuovi obiettivi di sviluppo urbano e politiche ambientali sostenibili.

caption: foto di Fotomaag, via Panoramio

Numerosi gruppi si sono costituiti per promuovere la vita sociale all’interno del quartiere, prime fra tutte l’Associazione K.I.O.S.K. e.V. che ha reso possibile nel 2003 l’inaugurazione del centro d’incontro “Glashaus” (casa di vetro) con annessa la mediateca ed il caffè letterario.

Nel loro motto, “perché la costruzione di un distretto non può essere fatta solo con le pietre!”, è racchiuso un principio fondamentale a cui tutte le città dovrebbero ispirarsi: non sono gli edifici che rendono tale una città, ma gli uomini e le donne che la abitano e i bambini che ne animano le strade, perché l’architettura senza le persone sarebbe solo un contenitore vuoto.

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Architettura swahili: la casa nella foresta che non abbatte gli alberi

caption: © Alberto Heras

In un’ottica fortemente rispettosa della natura nasce il progetto Red Pepper House, una casa immersa nella foresta realizzata dallo studio di architettura spagnolo URKO Sanchez Architects. È un esempio di architettura organica, che dialoga con la storia, la tradizionale architettura swahili e la natura dell’isola di Lamu, in Africa orientale.

In copertina: foto © Alberto Heras

La CASA per vacanze NASCOSTa NDELLA FORESTA

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L’architetto ha il compito di costruire una residenza privata (trasformata poi in hotel di lusso), ma è obbligato a rispettare delle richieste specifiche, dettate dal committente. Lo studio del sito, la necessità di soddisfare le richieste del cliente e il rispetto per l’ambiente, danno vita ad un progetto originale, un giusto mix tra tradizione architettonica swahili e modernità.

Il cliente, Fernando Torres, appassionato di architettura e grande amante della natura, desidera una proprietà che deve:

  • avere una dépendance privata;

  • essere su un unico livello;

  • avere spazi privati e zone più ampie di condivisione;

  • avere un impatto minimo sull’ambiente;

  • essere realizzato secondo tecniche e materiali locali.

La forma unica del progetto, deriva dalla volontà di salvaguardare la vegetazione presente e, quindi, di costruire solo nelle zone non occupate dagli alberi. Questa decisione ha permesso di avere un’alternanza di spazi aperti e chiusi, soleggiati e ombreggiati, tenuti uniti da una copertura continua.

Il progetto si sviluppa in lunghezza su un’area totale di 1500 metri quadri.

caption: © URKO Sanchez Architects

caption: © Alberto Heras

caption: © URKO Sanchez Architectscaption: © URKO Sanchez Architects

Le tecniche e i materiali locali

Il senso dello spazio, le tecniche costruttive e i materiali appartengono alla cultura swahili. La copertura è realizzata mediante l’utilizzo di un telaio in pali di legno di mangrovie, con sovrastante manto in makuti. Queste tipiche “tegole” keniote sono realizzate con foglie di palma di cocco intrecciate e legate tra di loro. Questo tetto tradizionale è utilizzato sia per coprire gli ambienti chiusi che la zona giorno, un enorme patio che ruota attorno a una grande seduta circolare in pietra, luogo progettato come spazio di condivisione e interazione.

Gli unici ambienti chiusi della casa sono le camere da letto, realizzate in pietra corallina e di forma cubica, sul modello delle case sparse presenti sulla costa di Lamu.

 caption: © URKO Sanchez Architects

 caption: © URKO Sanchez Architects

caption: © URKO Sanchez Architects

Accorgimenti ecofriendly 

 Al fine di garantire basse emissioni di carbonio e dato il clima soleggiato dell’isola, il progetto prevede due diversi dispositivi di raccolta di energia solare. Lo scaldacqua solare capta l’energia prodotta dai raggi del sole e la sfrutta per riscaldare l’acqua calda sanitaria, durante tutto il giorno. Le cellule fotovoltaiche garantiscono, invece, la produzione di energia elettrica. L’acqua giunge ai rubinetti e alle docce tramite una torre piezometrica, che sfrutta la gravità e funziona senza bisogno di un sistema di pompaggio.

Le finestre convogliano la brezza marina e i grandi spazi aperti assicurano la ventilazione trasversale. Il caratteristico tetto makuti protegge dal sole e permette di mantenere l’ambiente sottostante gradevolmente fresco nonostante le alte temperature esterne. La stessa funzione isolante è assolta dai muri in pietra corallina, tipici dell’architettura swahili.

Un albergo di lusso, ma con l’aspetto di una villa privata, che colpisce per la sua semplicità e adeguatezza.

caption: © Stevie Mann

caption: © URKO Sanchez Architects

caption: © Stevie Mann

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Lo spazio incompiuto diventa ufficio green: nuove frontiere del riuso

Lo Studio 120, collettivo di architetti vietnamiti, ha trasformato una casa mai completata, in un quartiere della città a sud-ovest di Hanoi, in uno spazio di vita e di lavoro. Su richiesta della società di consulenza e design Mein Garten, i progettisti hanno riprogettato l’edificio ponendo l’attenzione sull’efficienza energetica e sul riuso di materiali di recupero, in modo da ridurre sensibilmente i costi della ristrutturazione.

La committenza è una società che si occupa di paesaggio e di orticoltura: per questo l’edificio  aveva l’obiettivo di diventare il manifesto di una filosofia aziendale, dando spazio alla natura.

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Il progetto colpisce per l’abilità con cui sono stati creati spazi ibridi tra interno ed esterno e per aver riportato il verde in un quartiere densamente costruito.

L’ufficio mira a introdurre il concetto di riuso in ambito urbano, aprendo nuove prospettive all’incompiuto. Molte zone della città sono il prodotto dalla rapida espansione urbana che la crisi immobiliare e finanziaria ha tramutato in quartieri “fantasma”; qui come in altre parti del mondo, una pianificazione urbanistica erosiva e sregolata ha causato problemi sociali in termini di sicurezza e vivibilità. Invece di costruire ancora, ora si decide di riutilizzare le strutture grezze abbandonate, rivitalizzando zone che rischierebbero di essere dimenticate. Oltre ad essere un ufficio di rappresentanza, fornito di attrezzature e spazi adeguati, l’edificio ospita anche uno spazio per la progettazione e il lavoro creativo.

Parti delle pareti del vecchio manufatto sono state abbattute per evitare filtri tra interno ed esterno, costituendo percorsi che assomigliano a quelli di un giardino: acqua, terrazze, verande e camminamenti. Non sono stati trascurati nemmeno gli spazi per il relax, dove i dipendenti possano “ricaricare le batterie” per essere poi più attivi in ambito lavorativo.

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Lo studio 120 ha pensato questo ambiente non solo come luogo di lavoro, ma come vero e proprio luogo di vita, dove la natura aiuta gli abitanti ad avere un comfort maggiore, gli spazi stimolino continuamente l’interazione tra le persone, e tra i lavoratori sia incentivata la produttività e allontanata la noia.

I progettisti hanno scelto pannelli di legno in facciata, a mo’ di corazza, per ridurre l’impatto della pioggia sulle pareti bianche intonacate e su cui far crescere piante rampicanti. Il verde diventa un elemento della costruzione, come il legno e il mattone, permettendo una metamorfosi continua dell’edificio che ogni giorno assume diversi connotati. Il resto dei materiali usati, tentando di favorire più possibile la ventilazione naturale e l’ingresso di luce solare, sono stati scelti di riuso per ridurre, oltre ai costi di realizzo, anche gli sprechi nel corso della vita dell’edificio.

Quanti edifici abbandonati ci sono nelle nostre città? È pensabile dare loro una seconda possibilità?

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Olanda: la chiesa in legno riciclato

Nei Paesi Bassi, nella cittadina olandese di Elspeet è stata recentemente costruita la prima chiesa interamente realizzata in legno riciclato secondo la tradizione mennonita. 

CHIESA IN LEGNO:QUELLE DI CHILOÉ SONO PATRIMONIO UNESCO

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In linea con i principi mennoniti, infatti, il design dell’edificio ed i suoi ornamenti ed arredi interni sono volutamente semplici, poveri ed essenziali, così  come vuole la filosofia mennonita che vede nella povertà degli ambienti la dimensione ideale per entrare in contatto con Dio e concentrarsi solo sulla preghiera e lo stare insieme agli altri fedeli.

Gli ideatori del progetto, nonché i responsabili durante la fase esecutiva, sono stati i tecnici dello studio FARO. La eco-chiesa di Elspeet è un esempio di architettura pulita ed elegante, quasi essenziale, che vuole mimetizzarsi nel paesaggio circostante cercando di ridurre al minimo gli impatti ambientali. L’edificio infatti, salvo piccole finiture, è realizzato totalmente in legno naturale. L’interno è stato rifinito con pavimenti riciclati da materiali derivanti da un antico convento: provenienti da foreste che vengono rimboschite periodicamente, mentre la facciata anteriore è in rovere. Il materiale isolante utilizzato per coibentare le pareti dell’edificio è il lino.

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Il riscaldamento è garantito grazie ad un sistema ad accumulo termico.

La chiesa di Elspeet ormai è meta non solo di fedeli ma anche di curiosi tanto da restare aperta 24 ore al giorno ed è adibita non solo a funzioni religiose ma anche ad eventi di altro tenore. Insomma un luogo ideale in cui pregare, e non solo, secondo natura!

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La casa in legno nascosta nella foresta

All’interno di una foresta, nelle vicinanze del torrente Ri d’Alyse che segna il confine tra Francia e Belgio, si trova, nascosta fra gli alberi, una piccola casa per le vacanze. È una costruzione ecologica, progettata dall’architetto Pierre Deru, dello studio di architettura AADD.

CASE nella foresta PER VIVERE IN STILE SCANDINAVO

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La volontà di allontanarsi dalla vita frenetica della città e rilassarsi a contatto con la natura, ha spinto una famiglia a comprare un terreno nella foresta di Viroinval e uno chalet. Quest’ultimo, tuttavia, in pessime condizioni, è stato ricostruito dall’architetto Pierre Deru che, con un budget modesto, ha dato vita ad una casa in legno dall’organismo che dialoga con l’ambiente circostante.

Pierre Deru ha progettato delle forme organiche, dinamiche, curve, che entrano in armonia con gli elementi naturali, utilizzando delle tecniche costruttive rispettose dell’ambiente, nessun impatto negativo sulla foresta.

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La copertura ha una forma ogivale, aggettante per proteggere la facciata vetrata; all’interno presenta un motivo a losanghe o a “nido d’ape”, che si ispira alle famose opere di Philibert Delorme. L’intradosso, oltre ad avere una funzione strutturale, rappresenta una decorazione costante in tutti gli ambienti. Offre, altresì, la possibilità di personalizzare gli spazi, attraverso piccole mensole incastrate, dando vita a piccole librerie e porta oggetti.

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All’interno, in continuità con l’ambiente esterno, è presente una scultura dallo stile africano; si tratta di un tronco d’albero scolpito che funge da scala. Un elemento particolare che attira molto l’attenzione dei bambini.

La casa è interamente in legno, con la facciata rivolta a sud completamente vetrata. I materiali sono tutti ecologici: legname certificato FSC, sughero, argilla, cellulosa e lana di legno. Quasi nulle le emissioni di CO2; una stufa a legna per il riscaldamento e la cottura dei cibi; in facciata due pannelli solari integrati a due boiler, riscaldano l’acqua sanitaria, e la depurazione è praticata mediante lagunaggio e compostaggio.

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Tree Church: la chiesa vegetale è fatta di piante

Avete mai pensato ad un edificio fatto totalmente da piante? Esiste, non è una semplice capanna rudimentale, e si trova in Nuova Zelanda, una nazione in cui  la sensibilità green è sempre stata molto diffusa e radicata nella coscienza della popolazione. L’inusuale edificio in questione è una chiesa fatta di alberi e piante rampicanti, si trova a Ohaupo, al centro di un parco, ed è stata ribattezzata non a caso Tree Church.

OPERE VERDI: IL TUNNEL VEGETALE PER INNAMORATI

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La Tree Church, la chiesa vegetale, è interamente costituita da vegetazione che si sviluppa intorno ad una struttura in metallo, progettata a mo’ di guida per rami e foglie. Questi si estendono e sviluppano secondo le superfici predefinite assumendo l’aspetto e la funzione di muri, copertura e passaggi.

Sono serviti ben quattro anni perché le piante crescessero e la coprissero completamente! La eco chiesa, la cui realizzazione é stata finanziata dall’imprenditore locale Barry Cox, è subito diventata meta di pellegrinaggio per fedeli e curiosi provenienti da tutti i paesi del Mondo, tanto che alcuni l’hanno già ribattezzata come la Lourdes dell’eco-sostenibilità. Forse un confronto po’ azzardato ma comunque molto suggestivo. Può ospitare fino a 100 fedeli ed è stata pensata da Cox durante i suoi numerosi viaggi in cui diverse sono state le chiese da lui visitate.  Il parco, che può essere visitato o affittato per cerimonie ed eventi, comprende anche un labirinto, splendidi giardini e una tensostruttura.

Per noi amanti dell’architettura green rappresenta invece un riuscito esempio di come sia possibile costruire edifici rispettando l’ambiente circostante e privilegiando “materiali” naturali. Al momento la chiesa vegetale resta un esempio unico al mondo, ma visto il successo che sta riscuotendo ci auguriamo che molto presto “edifici” simili vengano realizzati in tutto il mondo!

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L’unità abitativa che rivisita in chiave moderna lo stile Art Nouveau

All’interno del quartiere residenziale Nieuw Leyden, a nord della città di Leida, nei Paesi Bassi, lo studio di architettura 24H Architecture ha progettato un’unità abitativa ecologica unica nel suo genere. Essendo la zona ad alta densità abitativa e, trattandosi di case a schiera, il problema più importante da affrontare era la luce. Da qui l’idea di massimizzare il guadagno solare e l’apporto di luce attraverso l’introduzione di un cortile centrale che sfonda l’abitazione e permette alla luce diurna di illuminare anche gli ambienti inferiori. Data la sua conformazione estetica, la corte è stata soprannominata “canyon”.

LA CASA PATIO IN UN ANGUSTO LOTTO DI BARCELLONA

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Non esistono tramezzi divisori: sono le pareti stesse del canyon a suddividere gli spazi interni, articolandosi in parti vetrate nella zona giorno, parti opache nella zona dei servizi igienici fino a cambiare forma inglobando la scala. Il contributo solare permette sia di avere ambienti riscaldati naturalmente, grazie alla costruzione di pareti altamente isolanti e di vetri a bassa emissione, sia di avere acqua calda tramite un sistema solare termico, riducendo quindi consumi e costi dell’energia.

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I pavimenti interni ed esterni, le cornici delle porte e delle finestre, sono in bambù. Le pareti interne del canyon presentano un andamento sinuoso e un motivo decorativo intagliato molto elaborato, che riproduce la forma irregolare dei sassi di pietra. Stesso motivo, seppure a scala maggiore, caratterizza il parapetto della scala. A rendere unico questo progetto, oltre alla corte apprezzabile prevalentemente dall’interno, è senz’altro, la facciata. Il suo aspetto organico, fatto di linee curve e armoniose, interpreta in chiave moderna lo stile art nouveau.

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Da un punto di vista formale, l’unità dell’organismo architettonico si esplica attraverso la leggibilità in facciata della sua struttura interna. Così come in questo caso, è la facciata che racconta l’anima della casa. La facciata è in Louro Gamela, un’essenza di legno dalle elevate prestazioni meccaniche e di durabilità, mentre le parti in acciaio Cor-Ten, rappresentano le proiezioni in facciata del canyon, quasi a voler comunicare, con le sue forme, il percorso della luce all’interno della casa.  

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